Sono antiche le incrostazioni e mai chiariti gli equivoci che troppo spesso hanno messo insieme uomini della ’ndrangheta e appartenenti al clero calabrese. Piaccia o meno, questo è testimoniato da fatti, episodi, indagini, processi. Ma soprattutto, ed è la cosa più grave, questo è nel sentire del popolo calabrese cresciuto tra proverbi e ammonimenti attraverso i quali i vecchi esortavano i giovani a diffidare dai rapporti tra potentati locali: «Previti, mafiusi e sbirri non ti mentìri ca’ sgarri»: tieniti lontano dai mafiosi, dai preti e dagli uomini di legge, sbagli in ogni caso. Anni di consolidate connivenze non possono essere spazzate via dalla sera alla mattina, è ingenuo o falsamente ingenuo chi crede il contrario.
Papa Francesco però questa rottura “senza se e senza ma” ha deciso di imporla e lo ha fatto con estrema determinazione: chi sceglie di essere uomo della ’ndrangheta non può essere membro della comunità dei cristiani. Se non una cosa banale, certamente una ovvietà ma questa “ovvietà” sta destabilizzando le cosche e, con loro, anche una parte della Chiesa locale. Anni di, chiamiamolo così, buon vicinato non possono essere messi in discussione improvvisamente, o almeno questo non può accadere senza che vi siano reazioni. Prevedere queste reazioni non significa generare allarmismo ma, molto più semplicemente, sapere leggere le dinamiche della criminalità calabrese. Una criminalità solida e strutturata, capace di sopravvivere anche al pentitismo che ha massacrato Cosa nostra e camorra, ma in questi anni messa a dura prova da due fenomeni che invece di sottovalutare occorre seguire e incentivare. Sta venendo meno il matriarcato mafioso: le mogli dei boss e dei picciotti si scoprono prima di tutto mamme e tentano di sottrarre i loro figli a un futuro di sangue e dolore. Per questo parlano con lo Stato, cercano referenti attendibili nelle istituzioni, cominciano a collaborare con la giustizia. Una rivolta, quella delle mamme, repressa nel sangue, come testimoniano i tanti “femminicidi” di ’ndrangheta di questi anni, ma non per questo debellata. Adesso frana pure il riconoscimento dello “status” di “uomo di rispetto” da parte della Chiesa. E questo per volere non, si badi bene, della Chiesa locale ma del suo massimo rappresentante in terra: il Pontefice. Niente processioni durante le quali ostentare il proprio ruolo di “rappresentanza”; niente omaggi davanti alle case dei detenuti; niente padrini equivoci (fa ancora discutere il caso di quell’esponente politico sidernese in carcere per mafia che ha battezzato ben 128 bambini). Aggiungerei, niente testimonianze che lasciano il tempo che trovano, quando non assumono oggettivamente un risvolto che inquieta. Perché un vescovo o un sacerdote debbono andare in Tribunale a deporre sulla credibilità o meno dell’accusa di essere connivente con la ’ndrangheta o di essere a capo di una cosca? Cosa ha di più di un comune cittadino, davanti alla legge, un vescovo o un parroco? Eppure negli ultimi anni non sono pochi i casi del genere. Citiamo i più recenti: don Memè Ascone, parroco di Rosarno, va in Tribunale per dire che Francesco Pesce è una brava persona e Franco Rao un vero amico. Risultato: il primo viene condannato a dodici anni di carcere e il secondo a sedici. Analogamente, monsignor Fiorini Morosini, oggi arcivescovo di Reggio Calabria, viene portato dalla difesa a deporre in favore dell’ex sindaco di Siderno Alessandro Figliomeni, accusato di concorso in associazione mafiosa. Morosini testimonia ma ciò non impedisce al Tribunale di condannare a dodici anni Figliomeni. Chi legge queste cronache che sensazioni ne trae? Ma facciamo il caso contrario: cosa accadrebbe se un pubblico ministero dovesse citare al banco dei testimoni un prete o un vescovo perché dica se un imputato è ’ndranghetista o meno? Certamente la reazione sarebbe ben diversa da quella che si coglie quando le citazioni arrivano in difesa degli imputati. Quasi che l’autorità morale della Chiesa locale valga solo in senso assolutorio. Quanto accaduto a Oppido Mamertina segue solo casualmente la scomunica ai mafiosi di Papa Francesco? Ci creda chi vuole ma noi a questa “casualità” non crediamo. Anche perché sarà pure vero che l’inchino la statua lo aveva fatto anche gli altri anni. Sarà pure vero che era rivolto non a casa Mazzagatti ma a tutta la via non percorribile (ma allora perché non inchinarsi anche alle altre vie non percorribili e non percorse invece che solo a quella?); ma è altrettanto vero che questa volta l’ottimo maresciallo Marino aveva provveduto a mettere in mora i portatori con largo anticipo, ragion per cui l’aver operato l’inchino anche dopo l’ammonimento a evitarlo dichiara la cosa per quel che è: una sfida aperta. La ‘ndrangheta non cede la sua supremazia sul territorio, in qualche caso è disposta a condividerla, a tollerare che anche la Chiesa faccia la sua parte ma se non entra in conflitto con il predominio mafioso. Questo è!
E questo è stato, in una terra dove la Chiesa locale ha sempre firmato documenti roboanti ma nella pratica ha tollerato che moltissimi parroci si chiamassero “terzi” rispetto allo Stato. Celebri i matrimoni officiati in latitanza, come quelli del defunto boss di Locri Pepè Cataldo o del boss di Castellace Saro Mammoliti. Così come rimangono avvolti nel mistero omicidi di chiaro stampo mafioso che hanno visto cadere vittime esponenti della Chiesa locale come monsignor Trimboli a Ciminà e monsignor Giovinazzo lungo la strada che porta al santuario di Polsi. Quello che i boss, il cui nervosismo sarebbe stupido sottovalutare o minimizzare, in queste ore stanno cercando di capire è se e fino a che punto la Chiesa ha deciso davvero di schierarsi in questa battaglia di liberazione dalla ’ndrangheta. Le parole di Papa Francesco, ma più che le sue parole le sue scelte operative (il riferimento è alla nomina di monsignor Oliva a vescovo di Locri, l’indicazione di monsignor Galantino alla presidenza della Cei e il recupero dell’esperienza maturata su questo fronte da padre Bregantini), aprono il cuore dei calabresi onesti alla speranza, nel contempo mettono in grave difficoltà quanti su questo fronte hanno sempre “nicchiato”. (0050)
(L’editoriale del direttore Paolo Pollichieni è pubblicato sul numero 160 del Corriere della Calabria, in edicola fino al 24 luglio)
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