REGGIO CALABRIA «Un quartiere abitato da un migliaio di persone, è rimasto inerte e sparuto (probabilmente intimidito sino a rinchiudersi nelle abitazioni), a fronte delle condotte aggressive e violente che si consumavano sulle pubbliche vie da soggetti armati che si fronteggiavano, si minacciavano, portavano e facevano uso di armi da sparo. Insomma, la vicenda si ripete ed è espressione delle note caratteristiche che descrivono (…) la modalità operativa delle associazioni di ‘ndrangheta». Per oltre ventiquattro ore, macchiate infine con il sangue di un omicidio consumato a sangue freddo, il rione Modena di Reggio Calabria si è trasformato in un far west, «una terra di nessuno dove le regole dello Stato di diritto e la pubblica sicurezza sono state costantemente vilipese e anzi sfidate dalla protervia dei contendenti che hanno, deliberatamente e ostentatamente, cercato l’eclatanza del gesto e delle condotte, giacché non era loro solo necessario annichilire l’avversario, ma soprattutto affermare pubblicamente il proprio predominio criminale».
Non risparmia le parole dure il gip Adriana Trapani nel provvedimento con cui dispone il carcere per Natale Crisalli, l’uomo arrestato oggi a Varese, perché accusato di aver tentato di uccidere Franco Fabio Quirino, l’imputato al processo “Alta Tensione” ucciso nello scorso marzo, a pochi giorni dalla sentenza. Inquirenti e investigatori non hanno – allo stato – elementi a sufficienza per sostenere che sia stato lui a sparare quei colpi alla schiena che per Quirino sono stati fatali, ma sanno per certo – grazie alle testimonianze faticosamente estorte a parenti e amici della vittima – che i due, prima della morte hanno utilizzato le case sparse di Modena – l’accrocco di vecchie palazzine popolari che l’edilizia pubblica ha voluto nel cuore del quartiere – nello scenario di un duello con tanto di minacce, colpi di pistola sparati in aria o contro le abitazioni.
LE DECISIVE DICHIARAZIONI DELL’EX MOGLIE A mettere gli investigatori sulle tracce di Crisalli è stata l’ex moglie di Quirino, Rosaria Nicolò, che accorsa in ospedale, agli investigatori ha spiegato: «Ci siamo rivisti stasera, intorno alle 20, al bar di mia proprietà, quando lui è venuto un po’ brillo e si è tolto il giubbotto, mostrandomi e guardando la parte posteriore dello stesso in cui si notavano alcuni forellini, dicendomi: “quel pezzo di merda mi ha sparato”. Io gli ho chiesto chi e lui mi ha detto che era stato Natale Crisalli, abitante nelle palazzine basse del rione Modena a cagione di una lite che avevano avuto in mattinata. Poco dopo affermava di volerlo andare a trovare per “fargli una faccia tanta”». E sarà proprio Crisalli, interrogato la stessa notte dell’omicidio dai carabinieri, a rivelare il motivo della lite: «Le mie controversie con Quirino Franco Fabio sono iniziate l’altro ieri, quando mi ha incontrato per caso lungo la via pubblica, mentre ero in compagnia di un mio amico: Pizzimenti Antonino, nei pressi del “Dolce Forno”, aggredendomi verbalmente, accusandomi di essere un infame, carabiniere e sbirro (amico di Maugeri) e minacciandomi di morte». Appellativi che diventano offese nel rione Modena di Reggio Calabria, tali da meritare quello che nel “Far west” sarebbe definito un duello.
MODENA “FAR WEST” Se infatti – stando al racconto dell’indagato – Quirino lo avrebbe nuovamente incontrato il giorno successivo, invitando l’uomo che lo accompagnava in auto – Rocco Richichi, oggi indagato – a investire Crisalli, quest’ultimo non avrebbe esitato a recarsi alla «”villetta” (lungo la strada che porta a Ciccarello, dove si trova una casetta, ricovero degli attrezzi dei giardinieri ndr), ove in passato avevo notato – ha raccontato ai militari – essere stata nascosta una pistola che ho recuperato e portato con me, dopo avere verificato essere carica», ma soprattutto a utilizzare quell’arma. Alle minacce di Quirino, Crisalli avrebbe risposto sparando a suo dire in aria ed escludendo «di avere mirato e quindi di averlo colpito, anche perché se avessi voluto lo avrei fatto quando era vicino, potendolo uccidere».
Una versione cui inquirenti e investigatori hanno creduto poco o nulla e che è stata smentita da altri testimoni come Demetrio Missineo, che ai carabinieri racconterà invece di aver appreso da Richichi che Crisalli avrebbe sparato per colpire Quirino e l’autovettura su cui viaggiavano, ma soprattutto che i rancori tra i due erano radicati da tempo. «Quirino – metterà candidamente a verbale di fronte agli investigatori – cercava un pretesto per litigare con Crisalli. Beveva, questo è il motivo. Io pensavo che prima o poi l’avrebbero ucciso, ma non in questo modo». L’episodio in ogni caso è cruciale. «Il tentativo di omicidio – scrive infatti il gip – ha giustificato una reazione pari e contraria del Quirino che ha tentato – platealmente – con un’accentuazione dei toni e dei modi dettati dalla necessità di dare visibilità estrema alla sua condotta pur di ripristinare l’onore criminale ferito dalla messa in fuga a cui l’aveva costretto poco prima il Crisalli». Stando a quanto ricostruito dai militari, dopo quell’incontro Quirino avrebbe insultato e minacciato anche il fratello e il cognato di Crisalli – Salvatore Crisalli e Alfredo Giustra – mentre nella notte si sarebbe recato di fronte all’abitazione dell’uomo per sparare contro la stessa quasi l’intero caricatore. Quella sarà l’ultima intimidazione riconducibile a Quirino. Qualche ora dopo infatti sarebbe stato ritrovato agonizzante in un vicolo del quartiere, ferito alla schiena da tre colpi che si riveleranno letali.
I PADRONI DEL QUARTIERE Nonostante si affermi che l’omicidio sia maturato «in un clima di accesa conflittualità, caratterizzata da minacce e ingiurie reciproche, che durava sin dal giorno precedente», non ci sono elementi – allo stato – per affermare che quel delitto porti la firma di Natale Crisalli. Tuttavia, per il gip di certo non mancano prove a carico per sostenere che l’uomo è di certo responsabile di tentato omicidio e di porto e detenzione abusiva di armi da fuoco «dettata dalla finalità di affermare la prevalenza della propria personalità criminale e della propria egemonia nel territorio di riferimento sfidando pubblicamente non solo 1’aggredito, ma anche il controllo della pubblica sicurezza sul territorio, sfruttando e al contempo, alimentando l’intimidazione sociale e il conseguente clima di assoggettamento e omertà degli abitanti del quartiere cittadino di Modena (Case Basse)».
Per il giudice infatti «i valori impliciti che hanno mosso gli attori della vicenda risiedono, infatti, tutti nella necessità non solo di affermare la propria prevalenza criminale sull’altro, ma anche di farlo con modalità plateali, funzionali a implementare l’intimidazione collettiva e così affermare il predominio non solo sul contendente, ma sull’intera scena sociale». Ma soprattutto, ha sottolineato il gip, «il tema dominante delle aggressioni monitorate, infatti, risiedeva nella volontà di affermarsi ed essere riconosciuti come i principali referenti criminali del territorio, sfidando così tutte le regole di prudenza anche nella consumazione dei delitti perché proprio l’efferatezza della condotta è in grado di meglio esprimere la capacità di controllo del territorio e di assoggettamento. E, in una terra e per una collettività gravemente prostrata da anni di efferati delitti e proterve prove di forza della ndrangheta, le condotte descritte assumono una rilevanza e una eclatanza sociale che esprime e descrive a tutto tondo i caratteri tipici delle modalità mafiose».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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