REGGIO CALABRIA Formalmente erano tutti soggetti insospettabili, personaggi più o meno noti della Reggio delle professioni, a vario titolo e con vari ruoli attori di quel sistema giustizia che prevede una battaglia ad armi pari e nelle aule di Tribunale. Ma stando a quanto emerso dall’inchiesta Rifiuti spa 2, coordinata dai pm Sara Ombra e Giuseppe Lombardo, per il commercialista e amministratore di beni confiscati Rosario Spinella e gli avvocati Giulia Dieni e Giuseppe Putortì non era così. Loro – secondo la Dda – giocavano sporco, andando molto oltre il mandato che la rispettiva professione assegna loro. E se per i due legali «dalle attività di intercettazione svolte nel presente procedimento è emerso – si legge nell’ordinanza a firma del gip Barbara Bennato – come i due legali avessero svolto compiti del tutto esulanti dal loro incarico professionale, fungendo da indispensabili emissari di comunicati strettamente correlati agli illeciti interessi dalla cosca», a creare problemi all’amministratore giudiziario Rosario Spinella è anche l’evoluzione aziendale di quella Edilprimavera che lo Stato aveva strappato ai clan con la prima operazione Rifiuti spa, ma che oggi si scopre nel giro di poco tempo tornata in mano al boss Matteo Alampi.
L’amministratore dei clan È l’assoluzione dell’imprenditore veneto Sandro Rossato – oggi riarrestato per reati di mafia e altre accuse – il passaggio fondamentale che permette al boss di tornare in possesso del proprio patrimonio. Con l’assoluzione di Rossato infatti, anche il sequestro del suo 50% dell’azienda perde di efficacia, trasformandosi nella porta di servizio da cui gli Alampi sarebbero tornati a introdursi nella gestione dell’azienda. O meglio, il portone. Lo sa il boss, che in una conversazione scappata in carcere non solo indicherà il nome dell’amministratore prescelto, Lauro Mamone, ma anche le direttive che sarà tenuto a seguire. «Lui ha carta bianca, lui sa come deve fare… ma lui… l’Ingegnere, sa quello che deve fare… non c’è bisogno… lui deve fare piano, piano… lui deve fare squadra nuova… poi lui si nomina i suoi consulenti… intanto si fa la sua squadra nuova… di tutti quelli che ha, lui non è che me li può mandare tutti in giro o a casa…lui deve fare che ognuno me li mette in posti lontani… che mi sono responsabili uno di questo uno di questo e uno di questo… capisci cosa ti voglio dire… poi piano piano lui si regola». Lo sanno i familiari di Matteo Alampi, a partire dal padre e primo e più fidato referente del boss, Giovanni Alampi. Ma un contributo fondamentale alla realizzazione di questo piano piano, lo avrebbe dato il commercialista Rosario Spinella, che di fatto avrebbe spalancato le porte dell’azienda al clan, permettendo – fin dal primo consiglio di amministrazione fissato dopo il dissequestro – la presenza di Giovanni Alampi, padre del boss Matteo. «L’assemblea, contrariamente ad ogni regola deontologica e penale, aveva registrato l’incombente presenza di Giovanni Alampi – si legge nell’ordinanza – senza che alcuna opposizione o rimostranza dell’amministratore giudiziario Spinella, rappresentante dello Stato, il quale, negando l’evidenza in un atteggiamento assolutamente omertoso e compiacente, si era tiepidamente limitato ad invitare i vertici della cosca a tenere una condotta più attenta e meno foriera di rischi, onde evitare di incorrere in ulteriori incidenti giudiziari e ritrovarsi in breve punto e a capo». Ma la sua non sarebbe stata una condotta meramente omissiva.
Fallimento su commissione Il professionista scelto dal Tribunale per evitare l’infiltrazione dei clan non si sarebbe limitato a far finta di non vedere e non sentire come gli Alampi tornassero in possesso della Edilprimavera. I magistrati sono convinti che «l’intento dell’amministratore Spinella, in assoluta coerenza con il progetto imprenditoriale di Alampi Matteo, fosse quello di “far fallire” la Edilprimavera, impresa ormai confiscata e di alcun interesse economico». A supporto della tesi ci sono numerose conversazioni, prima fra tutte quella registrata fra Domenico Alati – direttore tecnico voluto dal clan – e l’ingegnera Lauro Mamone, scelto dal boss come amministratore. Ed è proprio quest’ultimo a lasciarsi scappare: «Cioè io gli ho scritto una lettera in cui gli ho detto che non so se gli dobbiamo (…) di responsabilità come amministratore… mi affitta quattro mezzi fracidi a 33.000,00 euro al mese… perché è un fatto di comodo… quello che entrava nella cosa se lo prendeva direttamente, e si pagava i debiti dell’Edilprimavera. I’Edilprimavera se deve fallire fallisce… l’hanno saccheggiata». E, secondo gli inquirenti, sarà sempre Mamone, discutendo con l’imprenditore veneto Sandro Rossato, a rivelare involontariamente agli inquirenti come gli ammanchi per i tre milioni registrati nelle casse dell’impresa: «Dal giorno dell’infortunio vostro, fino a quando sono arrivato io questo signore ha prelevato qualcosa come l.750.000 euro… da Airone oltre iva e 1.000.000 di euro da Rossato Sud oltre iva… quindi questi signori hanno messo in tasca 2.700.000 euro, mentre tu praticamente non hai avuto un centesimo… (…) gli voglio chiedere conto di tutti questi soldi che cosa ha fatto, io… o tu, meglio ancora, però io come amministratore e tu come socio naturalmente ne hai pieno diritto, perché lui si è incassato 3.000.000 di euro e tu sei stato alla finestra a guardare». Ma c’è di più. Il neo amministratore spiega infatti che «cioè Airone Ira affittato mezzi dall’Edilprimavera e non c’è una fattura di gasolio… cioè questo spende 2.000.000,00 di euro per affittare mezzi, e non gli mette manco un l. 000,00 euro di gasolio, quindi ci sono delle cose scandalose».
Uno strano contratto Per gli inquirenti, le parole di Mamone non sono che una conferma del sistema di false fatturazioni e sovrafatturazioni che ipotizzavano ruotasse attorno all’impresa. Fino al dissequestro delle quote di Rossato, Spinella avrebbe infatti fraudolentemente e illecitamente condotto la gestione delle aziende, traendo illecitamente utili tanto per sé quanto per gli Alampi. Accuse – quelle di Mamone – che troverebbero riscontro nel contratto di nolo a freddo (con durata biennale, dall’l aprile 2007 al 31 marzo 2009) di quindici automezzi a un canone giornaliero che oscillava, a seconda del mezzo, da un minimo di € 24,50 a un massimo di € 36,50 stipulato nell’aprile 2007 tra la Edilprimavera in persona del legale rappresentante pro tempore dott. Ivo Nucera e la Rossato sud srl, legalmente rappresentata da Spinella. Quest’ultimo, tramite il Consorzio Airone Sud, aveva dunque noleggiato mezzi della Edil primavera per 540.000,00 euro. Peccato che nella contabilità della società non ci sia neppure una fattura di gasolio. Una prova – per gli inquirenti – che i mezzi fossero stati locati senza essere stati, verosimilmente, mai utilizzati, ma solo per ”spillare” denaro alle società Airone e Rossato sud a favore dell’ Edilprimavera. Ma c’è di più. Stando a quanto emerso dalle intercettazioni, Spinella avrebbe anche attinto per mero lucro personale alle casse dell’impresa che avrebbe dovuto gestire. In quegli anni – spiega l’amministratore ai suoi interlocutori l’amministratore avrebbe «rubato dappertutto», venendo infine «sgamato» dai vertici del sodalizio.
Avvocati postini Di certo non meno gravi sono le responsabilità addebitate ai due legali di Alampi, Giulia Dieni e Giuseppe Putortì, entrambi definiti «emissari qualificati» delle direttive del boss dietro le sbarre. «Tale dato emerge inequivocabilmente non solo dalle conversazioni tra i destinatari dei messaggi, che spesso avevano fatto riferimento proprio ai legali, nel loro compito di efficienti latori di messaggi, ma trova conferma nelle visite – altrimenti non giustificate – dei due presso l
‘ufficio dell’ing. Mamone». Per i pm erano infatti loro a svolgere l’imprescindibile compito di «veicolare le informazioni da e per il carcere, come dimostrano le innumerevoli conversazioni in cui familiari e più importanti sodali, come Lauro Mamone, associano una telefonata del legale a un messaggio proveniente dal boss. Succede ad esempio il 16 ottobre 2009, quando Mamone riferisce a uno dei suoi collaboratori, Andrea Itri, di aver ricevuto una telefonata da Valentino Alampi, fratello del boss Matteo. «Mi ha telefonato Valentino che l’avvocato mi vuole parlare» dirà Mamone, che senza necessità di ulteriori approfondimenti concluderà: «Sicuramente parlò con Matteo». Ma anche per Itri, il significato di quella convocazione non necessita chiarimenti: «Vi vuole parlare l’avvocato di Matteo?… qualche messaggio?», chiede al suo interlocutore che si limita a rispondere: «Sì sicuro». E alla medesima comunicazione dell’ingegnere: «Senti a me ha telefonato Valentino che l’avvocato Dieni mi vuole parlare», medesima risposta arriverà da Alati: «Ti vuole parlare Matteo allora…», a riprova di un meccanismo conosciuto e collaudato, su cui nessuno dei sodali aveva necessità di spiegazione alcuna. E che ci fossero cose che il boss avesse necessità di comunicare al suo amministratore è lo stesso Alampi ad affermarlo in una conversazione captata in carcere solo qualche giorno prima, quando al padre assicura: «Allora come vengo devo parlare con l’avvocato e mando a Giulia».
«Dici a Giulia: vedi che Matteo tiene conto che tutto quello che stai facendo» E l’avvocato Giulia Dieni dagli Alampi era particolarmente apprezzata. Lo sanno Mamone, Alati e i sodali impegnati nella trincea delle imprese del clan che a vicenda si mettono in guardia, concordando – si legge nelle carte – che «al 99%» la convocazione del legale fosse motivata dalla necessità di riferire agli amministratori qualche «imbasciata» giunta dal carcere da Matteo Alampi, probabilmente “filtrata” dal padre Giovanni. E lo sa forse anche lo stesso avvocato, che al di là della parcella, dalla famiglia del boss – rivela lo stesso Matteo Alampi parlando con la moglie – ha sempre ricevuto attenzioni e regali. «Quando tu ti senti con lei – dirà infatti alla moglie durante un colloquio in carcere – le dici “Giulia , vedi che Matteo tiene conto che tutto quello che stai facendo tu, poi ti ricompensa dopo… tu allora le avevi dato l’anello (…) glielo avevi dato l’anello, quello tutto tempestato». Un regalo importante, cui si era aggiunto altro, gli ricorderà la moglie: «E poi le avevamo dato il foulard di Hermes».
Putortì il mediatore Non differente rapporto di fiducia e vicinanza, affermano i magistrati, aveva con i massimi vertici del clan Giuseppe Putortì, ex marito della Dieni e con lei codifensore degli Alampi al primo processo Rifiuti. E anche nel suo caso, a creargli problemi sono le conversazioni degli uomini del clan oggi finiti in manette. Ma – possibilmente – la sua posizione sembra essere anche più grave di quella dell’ex consorte. Putortì infatti non solo sarebbe stato da tutti automaticamente identificato come il portavoce del boss dietro le sbarre, ma si sarebbe anche concretamente adoperato perché venissero osservate le sue direttive. Non a caso si sarebbe ritrovato a mediare tra l’ingegnere Mamone e Valentino Alampi, «che con le proprie continue pretese, rischiava di compromettere la tenuta dell’illecito sistema predisposto al fine di soddisfare le pretese della famiglia e consolidarne il potere criminale». E sempre Mamone si farà pizzicare a confidare ad Alati l’intenzione di mandare un messaggio al boss dietro le sbarre tramite l’avvocato Putortì: «Io gli voglio dire solo una cosa… gli dico “avvocato mi deve fare una cortesia” deve riferire testualmente a Matteo quanto sto per dirle, quando io sono praticamente nominato da Rossato, io con gli Alampi non ho nulla a che vedere, però per un fatto di cortesia io ho chiamato suo padre prima di accettare e gli ho chiesto se aveva, se aveva perplessità sulla mia… sul fatto che io gestisco la cosa, se aveva richiesta da farmi, se aveva bisogno di soldi tutto… tutte cose…». Mamone afferma di voler far transitare il delicatissimo messaggio tramite Putortì: «È l’unico di cui mi fido». Una fiducia costata cara al legale, da questa mattina all’alba dietro le sbarre assieme alla collega Dieni. Per entrambi, il gip ha bocciato la richiesta di misura per associazione mafiosa derubricando il reato in concorso esterno. Ma stando a quanto dichiarato dal procuratore Federico Cafiero De Raho la partita non è ancora chiusa: «Valuteremo se ricorrere in appello».
Alessia Candito
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