REGGIO CALABRIA Per molti, Giuseppe Brandimarte è il vero e proprio “inventore” delle “squadre”, quei gruppi di presunti dipendenti infedeli che nello scalo di Gioia Tauro come negli altri porti del globo si occupano di imbottire i container di cocaina che altri colleghi, altrettanto presunti infedeli, si occupano di svuotare quando la nave madre arriva a destinazione. Ed è questa l’accusa con cui oggi è stato fermato per ordine della Procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione “Puerto liberado”, che già in passato gli aveva messo gli occhi addosso perché lo sospettava assieme ad altri responsabile della faida di Gioia Tauro, la lunga scia di fatti di sangue tra il 2011 e il 2013 scaturita dall’omicidio di Vincenzo Priolo, freddato a colpi di pistola sulla statale 111 nel luglio del 2011. Quando da quell’accusa, Brandimarte è stato assolto – svela oggi l’operazione dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria e del Goa, coadiuvati dal personale del Comando provinciale Reggio Calabria – è tornato indisturbato a coordinare le operazioni al porto di Gioia Tauro, divenuto per le cosche «la base stabile, sicura per l’importazione della cocaina in Europa», sottolinea il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho. E di quella base, Brandimarte, assieme al fratello Alfredo – anche lui destinatario del provvedimento di fermo – era per i clan «il punto di riferimento all’interno del porto di Gioia Tauro». Tanto lui come il fratello, che lo ha sostituito nel periodo di detenzione – sottolinea il colonnello Domenico Napolitano, comandante del Nucleo tributario – «da ex dipendenti si muovevano agevolmente all’interno del porto, avevano la possibilità di interfacciarsi direttamente con i lavoratori, scegliere chi e in che veste reclutare per la formazione delle squadre». Di certo, ha svelato l’inchiesta – che a detta del procuratore capo della Dda «rappresenta la prima vera indagine che svela i meccanismi e gli uomini che permettono logisticamente l’importazione della cocaina» – fra i più importanti personaggi che i Brandimarte avessero reclutato, c’era sicuramente quel Vincenzo Trimarchi, che gli investigatori hanno pizzicato mentre tentava di allontanarsi trasportando a bordo di un furgone sedici borsoni contenenti 560 kg circa di cocaina purissima. Per l’organizzazione, Trimarchi, dirigente quadro della Società di gestione della banchina merci del porto gioiese, era un personaggio fondamentale. Grazie a lui i Brandimarte erano infatti in grado di gestire i turni, organizzare le squadre, dirottare in qualsiasi momento i dipendenti infedeli a lavorare sulla nave e sui container che gli emissari del clan indicavano direttamente dall’America Latina. Messaggi che arrivavano blindati da un sistema di cifratura complesso e articolato, reso incomprensibile ai più da un codice alfanumerico che però i portuali infedeli, e soprattutto chi con loro su Gioia si interfacciava, conosceva alla perfezione. Ma la chiave di quel codice sono riusciti a trovarla anche i militari della finanza, che proprio decodificando uno dei messaggi criptati arrivati sulle utenze formalmente intestate a personaggi inesistenti, inclusi nomi noti del mondo dei cartoon, ma in uso agli indagati – da tempo intercettati e tenuti tutti sotto stretta osservazione – sono riusciti a sequestrare un carico di prova da 17 kg, con il quale l’organizzazione testava la nuova modalità d’importazione. Una perdita risibile per la “banda”, che – stando alle stime dei finanzieri – poteva permettersi il lusso di mettere in conto perdite calcolate per oltre 800mila euro. «Solo questo – sottolinea Cafiero de Raho – dovrebbe dare il metro delle quantità che l’organizzazione era in grado di far entrare in Italia e in Europa». Un lavoro rischioso ma ben retribuito se è vero che – stando a quanto è emerso dalle indagini – all’organizzazione capeggiata dai Brandimarte, che di tanto in tanto importava anche direttamente la coca, andasse un compenso pari a una parte variabile fra il 10 e il 30% del carico, da stabilire in base al peso criminale della cosca che finanziava l’operazione. Veri e propri ras delle spedizioni e dei recuperi allo scalo di Gioia Tauro, i Brandimarte non si arrestano quando uno degli uomini fondamentali della rete che avevano tessuto, Trimarchi, finisce in manette. «Dopo il suo arresto – spiega il colonnello Napolitano – l’attività non si ferma, ma al contrario si espande». L’organizzazione sembra essere in grado di sfornare continuamente nuove tecniche, metodologie e rotte per le spedizioni, tutte testate con carichi pilota, di modica quantità e scarsa qualità, per verificare l’eventuale risposta delle forze dell’ordine preposte al controllo ed eventualmente procedere, in un secondo momento, all’invio del grosso e purissimo carico. Ed era questo il carico che i portuali infedeli si dovevano occupare di far sparire. La droga contenuta in borsoni veniva prelevata, spostata in altri container e in seguito recuperata e fatta uscire dal porto, dove veniva consegnata agli emissari dei clan che avevano “commissionato” la spedizione. E di coca, con questo metodo, dal porto di Gioia Tauro ne è passata tanta. Moltissima nel corso di quest’operazione è stata anche sequestrata. Stando alle stime dei militari, negli ultimi tre anni sono state sottratte ai clan oltre quattro tonnellate di cocaina purissima, che una volta immessa sul mercato, avrebbe fruttato un introito complessivo di circa 800 milioni di euro. «Questo non è un pericolo solo per l’Italia – afferma il procuratore Cafiero de Raho – ma una minaccia per l’Europa intera, perché come altre operazioni hanno dimostrato la droga viene poi smistata anche su altri porti o fatta arrivare via terra in tutta Italia. Sarebbe necessario dunque creare una barriera molto forte qui in Calabria, e sarebbe una barriera di tutela per tutta l’Europa». (0050)
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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