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Kiave: potere alla parola

COSENZA «L’hip hop è casa mia», rappa Mirko Filice – meglio noto come Kiave – in uno dei suoi ultimi pezzi (“Welcome”). La frase racconta la compenetrazione totale del privato e del pubblico nel qu…

Pubblicato il: 10/08/2014 – 12:55
Kiave: potere alla parola

COSENZA «L’hip hop è casa mia», rappa Mirko Filice – meglio noto come Kiave – in uno dei suoi ultimi pezzi (“Welcome”). La frase racconta la compenetrazione totale del privato e del pubblico nel quotidiano dell’artista cosentino, ma – ribaltata – può significare che le porte di quelle casa possono aprirsi. O, magari, abbattere muri all’apparenza invalicabili. La seconda casa di Kiave, negli ultimi mesi, è stata quella circondariale di Monza, dove il rapper ha condiviso con alcuni detenuti la sua passione per l’hip hop e la scrittura: il workshop di Kiave – che poco prima era salito sul palco del Primo Maggio in piazza San Giovanni a Roma – è iniziato il 6 maggio ed è durato per otto incontri, tutti incentrati sul confronto, sull’importanza della parola e sull’uso della comunicazione scritta e verbale.
L’artista si era già confrontato con la didattica insegnando ai ragazzi di un liceo di Bisignano (Cosenza) per il progetto “Potere alle parole”. Ma non ha mai rinnegato una poetica che, per semplificare, potremmo definire impegnata: sul sito di Repubblica ebbe molto seguito un suo brano sul femminicidio, e Kiave negli ultimi anni è stato anche tra i protagonisti dell’iniziativa “Musica contro le mafie”, progetto che ha lasciato traccia in un libro-cd omonimo il cui ricavato è stato destinato all’associazione Libera di don Ciotti, impegnata in prima linea nelle lotte alle mafie. «In Calabria – scriveva Filice – nessuno dice niente, l’omertà si sostituisce al nostro midollo osseo», e raccontava la storia esemplare di un ragazzino della provincia di Vibo: «Marco, 14 anni, parla solo dialetto, io stesso ho avuto difficoltà ad interpretare alcuni suoi pensieri trasposti in parole, non sa scrivere, legge qualcosina qua e là, ma sa già impugnare una pistola, volendo sa anche smontarla per pulirla, perché suo padre gli ha insegnato che solo un’arma può concederti il rispetto che, nascendo dalla paura, ti porta ad essere un uomo».
L’intervento del rapper cosentino a Monza, promosso all’associazione “Il razzismo è una brutta storia” del Gruppo Feltrinelli, muoveva in parte dalle stesse premesse (dimostrare che l’arma più efficace può essere la parola) e si inquadrava nell’ambito del progetto “La biblioteca è una bella storia” finanziato dalla Fondazione Cariplo: l’iniziativa è partita lo scorso ottobre per promuovere incontri e laboratori sui temi dello storytelling, dell’espressione creativa e dell’identità. Gli incontri con Kiave sono stati un momento importante di un percorso che durerà fino a giugno 2015 coinvolgendo anche altri ospiti.
Il suo progetto nel carcere di Monza – promosso dal Comune lombardo con il sistema bibliotecario Brianzabiblioteche per favorire la coesione sociale attraverso i centri di pubblica lettura – è senza dubbio inedito nella scena musicale italiana: crede che farà da battistrada, nell’ottica di un reinserimento dei detenuti?
«Mi piacerebbe fosse così. Lo spirito che mi ha convinto a spingermi in questa esperienza è quello per cui credo che un carcere possa rieducare, non punire, quindi sarebbe interessante usare la musica, non solo il rap, per raggiungere questo fine. So comunque che ci sono varie iniziative simili sia nel carcere di Monza, sia in altre carceri: l’associazione con cui collaboro per questi progetti, “Il razzismo è una brutta storia”, si occupa anche di questo».
Qual è stata la risposta dei ragazzi che hanno partecipato?
«La risposta è stata davvero stupefacente, dopo i primi incontri hanno iniziato a scrivere tutti, e di volta in volta c’erano nuovi testi da sentire, e nuove strumentali da scegliere. Non tutti sono di madre lingua italiana, quindi qualcuno rappa in francese, qualcuno in spagnolo e logicamente anche in italiano. La cosa assurda è che tutti si sono dedicati anche alla tecnica, facendo grossi passi da gigante. Nessuno di loro aveva mai registrato o era mai stato in uno studio di registrazione. Noi siamo riusciti a chiedere i permessi necessari e quindi a fargli registrare dei pezzi, 8 per la precisione. Logicamente la qualità audio non è perfetta, ma penso che in questo caso siano importanti il contenuto e lo spirito con cui hanno scritto i pezzi».
C’è qualcuno in particolare che secondo lei ha la stoffa del rapper?
«Sì, anche più di uno, è incredibile come il rap riesca ad attecchire in un modo inspiegabile “scientificamente”, su persone che hanno davvero vissuto la strada. Comunque sentirete, qualcuno ha davvero spaccato».
Una storia che l’ha colpita particolarmente tra quelle trovate dietro le sbarre?
«Più di una. Non sta a me giudicare chi giudica o criticare le nostre leggi, ma so riconoscere uno sguardo buono da uno cattivo, e lì dentro c’è qualcuno che non dovrebbe starci. Non mi voglio soffermare sulle singole storie o sui singoli casi giuridici, per rispettare anche i ragazzi, ma comunque spesso tornavo a casa con un forte senso di vuoto e rabbia, dato che penso sia assurdo che per delle leggi obsolete, a qualcuno che magari non può più permettersi un avvocato degno di essere definito tale, vengano rubati i migliori anni della propria vita. Per fortuna proprio qualcuno di loro è fra quelli che si sono impegnati di più nel rap e nella scrittura, così che, almeno la loro voce, le loro emozioni e i loro pensieri possano oltrepassare quelle sbarre e cercare di trasmettere qualcosa a chi li ascolterà dall’esterno».
Sono previste altre tappe del progetto? Magari in Calabria…
«Ci stiamo lavorando. Purtroppo la burocrazia in questi casi è davvero tortuosa e difficile. Mi piacerebbe un sacco svolgere questo tipo di laboratorio anche nelle carceri del sud, maggiormente in quello di Cosenza, della mia città, anzi colgo l’occasione per lanciare un appello al riguardo».
È noto il suo impegno contro la mafia e nella campagna sul femminicidio. Esiste ancora lo spazio per una musica – e in particolare un tipo di rap – che vada oltre lo sfoggio di tecnica a fronte dell’assenza di contenuti?
«Beh, io e Blue Nox (il collettivo artistico di cui Kiave fa parte, ndr), così come i cugini di Unlmited Stuggle, o nuovi talenti come Mezzo Sangue, siamo la prova vivente che un certo tipo di rap può ancora esistere e guadagnarsi, dignitosamente, lo spazio che merita, sia come visibilità che come vendite o live. Poi, logicamente, ognuno fa la musica che vuole, ma sono sicuro che questa esperienza farebbe bene a tanti miei colleghi rapper».
Lei da anni vive fuori dalla sua terra d’origine: pensa che non ci sia modo di ritornare?
«Ma certo, io sto solo viaggiando lungo la nostra nazione per potenziarmi, per studiare e migliorare come uomo e come artista, ma il mio futuro è tornare nella mia terra per mettere a disposizione della mia città ciò che ho imparato. Poi voglio dei figli che parlino il mio dialetto, quindi quando sarà, cresceranno a Cusè come il padre e le generazioni prima di lui!».
Cosa salva del rap italiano?
«Ora come ora tanto, la professionalità, l’impegno, la competizione, la voglia di far crescere questo genere. Non siamo in pochi a dire la verità nei testi, cercando di usare questo linguaggio per cambiare le cose: oltre la tv, giù, nel sottosuolo e non solo, c’è un mondo. Mettendo da parte il tedio e la pigrizia, si può trovare tanto».
E della musica calabrese (a parte Brunori, col quale ha collaborato e che abbiamo visto di recente nella copertina di Rumore con il suo amico Ghemon, altra punta di diamante di Blue Struggle)?
«A parte il maestro Lugi, a cui devo tanto, mi piace ricordare che è uscito da poco il disco di Loop Luna con le produzioni di Turi dentro, quindi accoppiata totalmente calabra. La mia provincia regala tanti talenti, consolidati come Dj Kerò, Cario, Brigante e Dongo, ma anche nuovi e in continuo sviluppo come Libberà. Poi, essendo io un nos
talgico, aspetto il disco di L Mare, super talento della nostra terra».
Può darci qualche anticipazione sulle sue prossime tappe calabresi? Qui c’è un sacco di gente che l’aspetta a braccia aperte, anzi alzate…
«Questa estate farò pochissime date, ma mirate, alcune nella provincia di Cosenza. Mi voglio risparmiare per quando uscirà il prossimo disco, non mi va di girare tanto senza avere un disco da promuovere, e dato che il mio “Solo per cambiare il mondo” è uscito da più di un anno, un vero e proprio tour partirà dopo le prossime uscite discografiche, che logicamente avranno il logo Macro Beats».

Eugenio Furia
e.furia@corrierecal.it

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