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Morto Delfino, il generale dei segreti

Il 27 settembre avrebbe compiuto 78 anni ma gli ultimi due li aveva trascorsi, per via di una grave malattia, tra ospedali e case di cura specializzate in cure palliative. In una di queste, a Santa…

Pubblicato il: 03/09/2014 – 15:42
Morto Delfino, il generale dei segreti

Il 27 settembre avrebbe compiuto 78 anni ma gli ultimi due li aveva trascorsi, per via di una grave malattia, tra ospedali e case di cura specializzate in cure palliative. In una di queste, a Santa Marinella in provincia di Roma, ieri è deceduto l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. Era nato a Platì nel 1936, suo padre era il mitico “Massaru Peppe”, immortalato in diversi romanzi da Corrado Alvaro. Dava la caccia a briganti e uomini delle ‘ndrine, quando la battaglia era dura, sanguigna, adattata a codici personali più che a norme e leggi. Se ne va, con il generale Delfino, uno dei più controversi protagonisti della nostra “Prima Repubblica” che forse più di tutti ha incarnato il motto della “Benemerita” che recita “Usi ubbidir dacendo e tacendo morir”. Se ne va e porta con sè nella tomba molti dei maggiori misteri di questo Paese dal caso Calvi alla strage di piazza della Loggia, dalla cattura di Totò Riina alla stagione dei sequestri di ndrangheta in Lombardia.

 

LE ACCUSE DEI PENTITI E I SILENZI DI DELFINO
Nonostante la lunga malattia che lo ha costretto a letto per 14 mesi, il controverso militare calabrese non ha mai voluto dissipare le pesanti ombre che si sono allungate sul suo operato a partire dalle rivelazioni di importanti pentiti di ‘ndrangheta come Saverio Morabito o Giacomo Ubaldo Lauro. Per loro, come per i tanti che negli anni sono stati chiamati a chiarire aspetti della lunga, ambigua storia del generale, Delfino era uno dei personaggi chiave di quella strategia della tensione cucinata fra destra eversiva, massoneria, ‘ndrangheta e pezzi di Stato destinata – almeno nelle intenzioni – a far saltare il banco con un golpe nell’Italia degli anni Settanta, quindi a stravolgere l’assetto del Paese nei decenni successivi.

 

UOMO CHIAVE NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Accuse che ha sempre respinto al mittente, ma senza mai fornire una versione alternativa plausibile al suo operato in quegli anni che vanno dalla Guerra fredda al disgelo, se non l’esistenza – teorizzata nella sua autobiografia “La verità di un generale scomodo” – di “Grande vecchio”, unico reale tessitore delle trame italiane, e delle alleanze nazionali e internazionali che hanno inibito forse l’evoluzione democratica del Paese. E se del grande burattinaio Delfino non ha mai svelato il nome o l’identità, di certo ha dimostrato di conoscere tante di quelle trame che negli anni sono state tessute cucendo insieme omicidi eccellenti, stragi e inconfessabili legami benedetti da quella ragione di Stato che ha spesso giustificato crimini orrendi. Più volte indagato, rinviato a giudizio ma assolto per la strage di piazza della Loggia, condannato invece a tre anni e quattro mesi di reclusione per truffa aggravata per aver estorto 800 milioni di lire alla famiglia del sequestrato Soffiantini, Delfino non ha mai ammesso nulla, trincerandosi dietro silenzi impenetrabili o ricostruzioni che agli inquirenti sono sempre sembrate troppo parziali.

 

DAL CASO CALVI ALLA STAGIONE DELLE STRAGI
Nonostante sia ad oggi impossibile ricostruire con precisione il reale ruolo giocato dal generale nella storia occulta d’Italia, di certo Francesco Delfino sembra essere stato un personaggio chiave. Nato a Platì, è a nord che inizia a costruire la sua carriera in divisa, mentre per il Sismi è capocentro a Bruxelles. In questa veste, sarà l’unico agente italiano chiamato a Londra nel giugno dell”82, quando il corpo del banchiere Roberto Calvi viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri, come anche l’unico – a suo dire – a continuare a indagare su quello stranissimo episodio rapidamente archiviato come suicidio dalle autorità britanniche. Ma l’ascesa di quel carabiniere che nonostante lavorasse lontano dalla Calabria mai – a detta dei pentiti – avrebbe reciso i propri legami con Platì e con le sue ingombranti famiglie, inizia a Brescia. Ci è arrivato dalla Sardegna, dove si è distinto negli anni in cui l'”Anonima” ha trasformato i sequestri in un’industria, e non appena arrivato inizia a mettere a segno alcuni colpi importanti. Incastra Carlo Fumagalli, partigiano “bianco”, negli anni Sessanta agente Cia nello Yemen e leader del Mar (Movimento di azione rivoluzionaria), formazione armata anticomunista, golpista, responsabile di una serie di misteriosi attentati alle linee ferroviarie in Valtellina. Due mesi prima, grazie a una delle provvidenziali soffiate di cui la sua carriera sembra costellata, riesce a bloccare Kim Borromeo e Giorgio Spedini, due neofascisti delle Sam (Squadre di azione Mussolini) mentre erano a bordo di un’auto imbottita d’esplosivi. Allo stesso modo, è con una celerità rivelatasi poi sospetta, che dopo la bomba che il 28 maggio ’74 a Brescia uccide otto persone e ne ferisce più di settanta, presenta agli inquirenti che battono la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ugo Bonati, che sparirà senza lasciare traccia. Il suo grande accusatore, il fascista bresciano Ermanno Buzzi, morirà invece in carcere, strangolato con le stringhe delle scarpe, mentre i militanti milanesi di Ordine Nuovo che – come si scoprirà dopo – hanno firmato quella strage, possono far perdere le proprie tracce mentre le indagini si arenano.

 

LA PASSIONE DI DELFINO PER IL NERO

Operazioni condotte a colpo forse troppo sicuro, senza sbavature e quasi senza indagini previe, su cui molti nel corso del tempo hanno avanzato quei sospetti che il senatore Giovanni Pellegrino ha messo nero su bianco nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita». Coincidenze che Carmine Dominici, uomo di ndrangheta e storico militante di Ordine Nuovo, avrà modo di spiegare quando inizierà la sua collaborazione con i magistrati «So – dice al giudice di Milano Guido Salvini – che esisteva un ufficiale dei carabinieri che curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative». E sul perché un soggetto come Delfino, fosse in contatto con i neofascisti che si riproponevano di sovvertire quello Stato che da militare avrebbe dovuto servire, Dominici risponde senza tentennamenti: «Non so come e quando Zerbi abbia conosciuto Delfino, tuttavia quando si erano decisi i tre fronti di azione sui quali doveva dispiegarsi l’azione di Avanguardia si era posto il problema di assicurarsi, se non l’appoggio, il non intervento della delinquenza. È quindi probabile che in questa azione di mediazione, che so per certo essere stata effettuata, il Delfno e lo Zerbi si siano conosciuti. Con ciò intendo dire che erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e che quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello».

 

PARLANO I PENTITI
Rivelazioni che si incastrano non solo con quelle di Saverio Morabito, primo pentito di ‘ndrangheta al nord che in tempi non sospetti metteva a verbale che «a Luino all’epoca c’era il tenente Francesco Delfino. Mio padre gli telefonava, andava a trovarlo, passavano la giornata insieme, poi mio padre andava dall
‘altra parte del confine, faceva rifornimento di sigarette, zucchero, caffè, cioccolato, caricava, caricava», ma soprattutto con quelle di Giacomo Ubaldo Lauro, fra i primi collaboratori di giustizia a fare luce sull’intreccio fra ‘ndrangheta, massoneria e destra eversiva che ha firmato il tentato golpe borghese e la cui ombra emerge dietro ancora troppi sanguinosi misteri italiani. Misteri come quello di piazza della Loggia, saltata in aria anche grazie a quell’esplosivo che proprio i calabresi avevano fornito. «Era tritolo. In tutti gli attentati è stato usato il tritolo, l’unico esplosivo che si può bruciare anche senza innesco» arrivato da quella Laura C affondata di fronte alle coste di Saline Joniche e che per anni è servita da personale arsenale della ndrangheta. «La colpa della strage di piazza Loggia doveva ricadere sulla sinistra anarchica. La strategia era quella», dice Lauro in pubblica udienza, sottolineando che proprio «Delfino sarebbe dovuto intervenire in caso di possibili disguidi». Accuse cui si aggiungeranno le risultanze investigative messe insieme dai magistrati bresciani quando il generale Delfino verrà prima indagato, poi rinviato a giudizio per i morti di piazza della Loggia.

 

IL CAPITANO PALINURO?
Per i pm, l’ufficiale è quel “capitano Palinuro” che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del golpe Borghese, ma anche quello che forniva alle Sam armi ed esplosivi necessari a mettere a segno quegli attentati per cui poi li avrebbe arrestati. Accuse pesantissime, documentate da testimonianze, rivelazioni, contatti, ma che non si trasformeranno mai in sentenze di condanna. Per archiviazione, proscioglimento o assoluzione, il generale riuscirà a dribblare tutte le indagini che sono state aperte sul suo conto. Uomo dai mille contatti, per il neofascista Biagio Pitarresi, Delfino sarebbe stato anche un uomo della Cia «Rocchi (uomo dell’intelligence statunitense in Italia ndr) mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». L’attentato in questione era quello che avrebbe dovuto mettere fine alla vita del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, negli anni in cui era coordinatore del pool Mani pulite, ma fu sventato grazie alla prontezza di un uomo della scorta quasi vent’anni dopo la strage di Brescia, il 14 aprile 1995. E in quei vent’anni sono innumerevoli gli episodi ancora oscuri che hanno costellato la carriera all’epoca ancora luminosa del generale Delfino, a partire dalla stagione dei sequestri con cui la ndrangheta ha terrorizzato la Lombardia alla fine degli anni Settanta.

 

LA STAGIONE DEI SEQUESTRI
Curiosamente, quando delle indagini se ne occupa Delfino, i covi individuati e i sequestrati liberati grazie a – dice il militare a chi in tempi non sospetti lo chiede «a sei confidenti negli ambienti dei calabresi di Corsico e di Buccinasco». Confidenti che però stranamente non gli consentono di evitare i sequestri, ma solo di intervenire dopo, con brillanti operazioni che gli valgono encomi, fama e avanzamento di carriera. Per Mario Inzaghi, killer dei calabresi di Corsico: «Come poi abbiamo potuto capire tutti chiaramente, siamo stati lasciati eseguire il sequestro Galli e soprattutto il sequestro Scalari». Per gli inquirenti – che per questo iscriveranno il suo nome sul registro degli indagati di un’inchiesta poi archiviata – il generale può contare sull’appoggio e la collaborazione di un uomo di peso delle ‘ndrine al nord, Antonio Nirta, detto “u du nasi” per l’abilità con cui usa il fucile a canne mozze. Secondo il pentito Morabito, è proprio lui, per conto del generale Delfino «a essere presente in via Fani al momento del rapimento di Aldo Moro». Un rapimento di cui, stando a quanto rivelato al pm Antonio Marini da Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino, il generale era a conoscenza quando il piano era ancora in preparazione, ma che avrebbe comunicato solo al Sismi, il servizio segreto militare. Esattamente dove negli mesi successivi proprio Delfino sarebbe approdato, per aprire una lunga parentesi di incarichi all’estero. In Italia, il generale torna a lavorare pubblicamente solo quasi dieci anni dopo.

 

IL MISTERO DELLA CATTURA DI RIINA
Torna a vestire la divisa da carabiniere e in qualità di vicecomandante della Legione viene spedito a Palermo con un incarico – almeno formalmente – amministrativo, per esserne allontanato nel giro di poco e spedito ad Alessandria. È lì che gli cade in mano Balduccio Di Maggio, uomo di Totò Riina, arrestato dai carabinieri di Borgomanero per porto abusivo di pistola. Di Maggio è in fuga, sa che l’avvicinamento fra Riina e il suo storico nemico Giovanni Brusca gli costerà la vita. Per questo decide di pentirsi, ma a una strana condizione che mette a verbale: «Sono disposto a rivelare quanto so su Cosa nostra. A instaurare un rapporto di collaborazione solo ed esclusivamente con il generale Delfino, con il colonnello Tassi, il tenente colonnello Giuliani e magistrati solo se accompagnati da uno dei predetti ufficiali». Sulla base di quelle rivelazioni, ottenute – dicono alcune indiscrezioni – dietro la promessa di un miliardo di lire, sarebbe stata realizzata nei mesi successivi la cattura di Totò Riina. O almeno questa è la versione che lo stesso Delfino farà filtrare, ma che in seguito verrà smentita dal mafioso pentito Tullio Canella, che addebiterà la cattura del boss dei boss a una soffiata di Bernardo Provenzano. Un altro dei tasselli della vita del generale che rimane avvolto nel mistero, alimentato dalle inquietanti rivelazioni di chi con lui ha direttamente o indirettamente avuto a che fare, come il killer Saverio Morabito che al procuratore di Milano, Alberto Nobili ha confessato, «guardi, dottore, i Sergi, i Papalia ci odieranno. Ma io di loro non ho paura. Ho paura solo del generale Delfino». Il generale dei segreti, rimasto fedele alla missione di condurli con lui nella tomba.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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