L’articolo 104 della Costituzione, al terzo comma, stabilisce che due terzi dei componenti del Consiglio superiore della magistratura vengano eletti dai magistrati ordinari e un terzo dal Parlamento in seduta comune «tra i professori ordinari di università in materie giuridiche od avvocati dopo quindici anni di esercizio». Il legislatore costituente disponeva in tal modo che il mondo del diritto – attraverso suoi esponenti particolarmente qualificati, scelti dal Parlamento – partecipi, insieme ai rappresentanti dei magistrati, al governo della magistratura (che dunque non è un autogoverno, come erroneamente si sente ripetere). Ciò per due motivi: in primo luogo in ottemperanza del generale principio della sovranità popolare (art. 1 Cost.), in secondo luogo a garanzia dell’indipendenza esterna e della autonomia interna della magistratura (art. 104, primo comma) nel suo delicatissimo compito istituzionale, fondamentale per la democrazia del Paese. Incidentalmente osservo che, nel 1948, per divenire avvocato occorreva prima svolgere per un congruo periodo di tempo (otto anni) le funzioni di procuratore legale, abilitato alla difesa davanti alle giurisdizioni del distretto di appartenenza (e quindi non in Cassazione). Nel 1997, con la legge n. 27, la distinzione è stata soppressa e da allora, dopo l’esame di abilitazione, il praticante viene iscritto direttamente nell’albo degli avvocati. Occorrerebbe quindi che il periodo di esercizio della professione richiesto per la nomina a consigliere del Csm venga adeguatamente aumentato ad almeno venti anni. Per lungo tempo il Parlamento, almeno di regola, esercitò il suo diritto di nomina in maniera corretta e autorevoli esponenti del mondo accademico e forense composero il Csm anche da vice-presidenti, con competenza, prestigio e autorevolezza (tra tutti basti ricordare i professori Mirabella e Conso). Pian piano, però, la scelta cadde sempre più spesso tra gli stessi componenti del Parlamento, sia pure dotati dei requisiti richiesti in Costituzione, così segnando una crescente politicizzazione delle nomine, quasi dovessero adempiere un mandato politico di rappresentanza, del tutto estraneo, anzi in antitesi, alla volontà dei costituenti. In sostanza il Parlamento ritenne – senza alcun fondamento – che essere titolare della selezione equivalesse al diritto di operarla solo o prevalentemente tra i suoi componenti. Il fenomeno degenerativo, perché di questo si tratta, sembra essersi accentuato in occasione delle recenti nomine, ancora non completate al momento in cui questo articolo viene scritto, dopo ripetute sedute andate a vuoto. E ciò per vari ordini di motivi: nella stragrande maggioranza i candidati sono membri del Parlamento – in qualche caso addirittura membri del Governo (!) –, la difficoltà di raggiungere la maggioranza richiesta nasce dall’esigenza – per ciascuno degli schieramenti politici di destra e sinistra – di ottenere il consenso sulla base della affidabilità o fedeltà politica ai due rispettivi leader(!), non certo per contrasti circa la qualifica accademica o professionale – di cui francamente non importa nulla – tanto da non badare neppure alle pendenze penali di qualcuno di essi! È legittima pertanto la preoccupazione che il Parlamento voglia interferire nel governo della magistratura secondo logiche politiche, diametralmente antitetiche a quelle volute dalla Costituzione, e cioè di assicurare alla magistratura una più forte autonomia e indipendenza «da ogni altro potere». Ciò vale soprattutto in un contesto nel quale il Csm dovrà provvedere, in tempi ristretti, alla nomina di alcune centinaia di capi degli uffici giudiziari più importanti del Paese. A cominciare dai vertici della Cassazione, ai presidenti di Corte d’appello e ai Procuratori generali, dopo l’esodo forzoso, stabilito con decreto legge dal governo, dei precedenti titolari. Ciò vale ancora di più in un contesto nel quale due misure, per comune definizione, “punitive” nei confronti dei magistrati (se non altro perché prive di ogni altra logica o motivazione) sono state adottate con decreto legge ad esecuzione differita! E infatti la abrogazione dei trattenimenti in servizio di cui al d.l. 90 inizia ad avere efficacia il 1° gennaio 2016; mentre la riduzione delle ferie dei magistrati – di cui al d.l. n. 132 – varrà solo a partire dal prossimo anno giudiziario. Si tratta, a stretto rigore, di un ossimoro costituzionale, che avrebbe dovuto trovare censura da chi dovrebbe essere il garante della Costituzione e del corretto rapporto tra organi costituzionali. Ma non è stato così. Abbiamo già segnalato i guasti che produrranno per gli anni a venire tali misure, ed è singolare che il ministro assicuri che in sede di conversione si cercherà di rimediare a qualcuna delle incongruenze attraverso correttivi. Quelli annunciati, però, aggiungeranno ulteriore danno al buon funzionamento della macchina giudiziaria. L’equazione – meno ferie maggiore produzione di sentenze – è tutta da dimostrare, anzi è prevedibile che avvenga il contrario. In un intervento sulla mailing list dei magistrati progressisti, il collega Claudio Castelli ha dimostrato come la riduzione delle ferie provocherà inefficienza invece che diminuzione della pendenza e questo per le caratteristiche peculiari, evidentemente ignote, del lavoro dei magistrati. «Ridurre le ferie, adombrando che ciò sia una soluzione ai problemi della giustizia – egli afferma – significa insinuare una falsità e ricacciare indietro ad una visione del magistrato come impiegato, i cui problemi sono quelli dell’orario, delle ferie, del carico massimo di lavoro, oltre il quale il problema è di altri e non di un sistema di cui (il magistrato) è protagonista». Se si pensa in tal modo di affermare “il primato della politica” sugli organi di controllo giurisdizionali ordinari e costituzionali, si commette una palese violazione dello spirito e della lettera della Costituzione che non prevede gerarchie tra organi costituzionali, ma diversità di funzioni da svolgere in autonomia e con dialettica costruttiva e democratica. Il fatto è che queste misure costituiscono lo “scalpo” da esibire demagogicamente alla pubblica opinione per ottenere facili consensi e occultare l’inerzia su ben più gravi e urgenti riforme necessarie per il Paese (ad esempio, in materia di contrasto all’evasione fiscale). Il correttivo proposto dal ministro Orlando – ammesso che egli abbia la possibilità di farlo passare – consisterebbe nella previsione che durante il periodo feriale ridotto, i magistrati non avrebbero più l’obbligo di scrivere sentenze, ordinanze e altri provvedimenti. Il che lascia chiaramente intendere – se ve ne fosse ancora bisogno – la totale disinformazione circa le peculiarità del lavoro dei magistrati, omologati a pubblici dipendenti della Pubblica amministrazione, così ignorando la natura tutta intellettuale della funzione. È come se si scrivesse in una legge che i professori universitari, durante le ferie, sono esentati dallo studio, dalla ricerca, dalla produzione scientifica. Ma chi sono i consulenti, gli esperti di cui i nostri governanti si circondano? E perché invece del dialogo si preferisce il disprezzo, lo sberleffo, la sfida? Sono strumenti estranei al metodo democratico, almeno nei Paesi di civiltà occidentale. Analoghe sono le considerazioni riguardanti le nomine di due giudici della Corte costituzionale, altrettanto sofferte di quelle dei componenti del Csm. Anche per queste nomine, la difficoltà nel trovare soluzioni autorevoli e condivise nasce dal vizio originario di puntare sull’affidabilità e fedeltà politica del designato. Anche in questo caso, la selezione privilegia l’appartenenza del candidato ad una delle Camere e a pregresse esperienze di governo, piuttosto che cadere su personalità di assoluto valore accademico, scientifico o professionale, dotate per questo di piena autonomia, come richiesto a chi deve assolvere alle funzioni delicatissime di giudice delle leggi e di garante della Costituzione (art. 134). In entrambi i casi esaminati, si mette
in pericolo l’equilibrio, delicatissimo, dello stato di diritto, in favore di un accentramento di poteri in capo all’Esecutivo, cui si aggiunge la sostanziale abolizione per i cittadini di questo Paese del pieno diritto di voto per la elezione dei propri rappresentanti di Camera e Senato. Non è un buon segnale per la nostra democrazia.
*Magistrato
Senza le barriere digitali che impediscono la fruizione libera di notizie, inchieste e approfondimenti. Se approvi il giornalismo senza padroni, abituato a dire la verità, la tua donazione è un aiuto concreto per sostenere le nostre battaglie e quelle dei calabresi.
La tua è una donazione che farà notizia. Grazie
x
x