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Un altro sbarco, tra morte e pregiudizi

REGGIO CALABRIA Uno di loro non ce l’ha fatta. Arrivato in fin di vita sulla nave della Marina militare Aliseo, profondamente debilitato dal viaggio, un uomo presumibilmente proveniente dall’area s…

Pubblicato il: 17/09/2014 – 15:39
Un altro sbarco, tra morte e pregiudizi

REGGIO CALABRIA Uno di loro non ce l’ha fatta. Arrivato in fin di vita sulla nave della Marina militare Aliseo, profondamente debilitato dal viaggio, un uomo presumibilmente proveniente dall’area subsahariana è morto sotto gli occhi terrorizzati dei suoi compagni di viaggio, nonostante le immediate cure prestate dai medici di bordo. In Italia, dove forse sperava di ricostruire una vita, una speranza, una normalità, troverà una tomba, ma per tutti gli altri 879 migranti provenienti da diversi Paesi dell’area mediorientale e subsahariana – 682 uomini, 125 donne e 72 minori, di cui due gemelli di poco più di 8 mesi – il viaggio continua.

 

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L’INTERVENTO DI SALVATAGGIO

«Siamo intervenuti su tre distinte richieste di soccorso distinte – spiega il comandante Mario Carlo Lauria – due arrivate in orario diurno, si trattava di due gommoni con a bordo circa cento persone, la terza arrivata invece in nottata. Si trattava di un motopeschereccio che si era bloccato a circa 80 miglia dalle coste della Libia e aveva iniziato a imbarcare acqua». Una situazione estremamente complessa da affrontare – spiega Lauria – perché «settecento persone a bordo, fra cui molte donne e bambini terrorizzati, su una barca di venti metri sono veramente tanti, per cui prima di tutto abbiamo cercato di rassicurarli per evitare che qualche movimento di troppo a bordo provocasse il ribaltamento del mezzo». Un intervento realizzato in condizioni difficilissime – in mare aperto, al buio – ma portato a termine dagli uomini della Marina, che prima hanno avvicinato il barcone e distribuito salvagenti e giubbotti di salvataggio, quindi hanno iniziato le lunghe operazioni di trasbordo. «Siamo riusciti a far salire a bordo poco meno di settecento persone – dice senza nascondere la soddisfazione il comandante, ormai alla quinta missione nell’ambito dell’operazione “Mare nostrum” – che siamo riusciti a gestire in modo sicuro, tranquillizzandoli e scortandoli a terra in sicurezza». Operazioni che dalla scorsa primavera si succedono ininterrottamente, ma che con la fine dell’estate e il progressivo peggioramento delle condizioni del mare diventano sempre più pericolose.

 

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PEGGIORA IL MARE, AUMENTA IL RISCHIO
«Più passa il tempo, più diventa pericolosa la permanenza in mare di queste barche, più diventa urgente l’intervento delle navi di soccorso per salvare queste persone prima che si verifichi la tragedia». Da venerdì scorso, stando ai dati diffusi dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), sarebbero oltre 800 i morti nei viaggi della disperazione nel Mediterraneo. «Noi siamo in grado di intervenire anche con condizioni di mare in peggioramento, ma chiaramente aumenta il rischio che qualcuno cada a mare o si butti in acqua per cercare di raggiungere subito la nave, quindi la nostra prima attività è quella di tentare di tranquillizzare i naufraghi, assicurando loro che comunque li porteremo via. «Nonostante non sia la principale attività della Marina, salvare delle vite umane, vedere a bordo donne e bambini che da soli sfidano il mare, allontanare queste persone da un destino potenzialmente tragico, per me e per il mio equipaggio è un onore», conclude Lauria che – appena terminate le operazioni di sbarco – tornerà di nuovo a pattugliare il canale di Sicilia, al comando della Aliseo.

 

 

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LA MACCHINA DELL’ACCOGLIENZA
Nel frattempo, sul molo, mentre la polizia porta via in manette due presunti scafisti, individuati grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, l’ormai rodata macchina dell’accoglienza viaggia a pieno ritmo. Il primo screening sanitario effettuato a bordo dai medici della Marina e della Croce rossa ha permesso di isolare i casi più gravi – una bimba di due anni e mezzo, gravemente disidrata è stata fatta sbarcare a Catania insieme alla madre e alla sorellina perché fosse immediatamente ospedalizzata – segnalare le eventuali urgenze, come le potenziali situazioni critiche, che per prime devono essere assistite al momento dello sbarco. È per questo che le prime a scendere la scaletta della nave sono le sei donne incinte, una delle quali al nono mese di gravidanza, come tutti coloro che più hanno subito le difficoltà del viaggio. Scortati dal personale del ministero della Salute e immediatamente assistiti dai medici del dispositivo, fra i primi a sbarcare ci sono i due pazienti diabetici che la lunga traversata ha privato della quotidiana somministrazione dell’insulina e dunque necessitano immediata terapia, un anziano affetto da ipertensione arteriosa, un ragazzo con un presunto trauma toracico e i 49 casi di scabbia.

 

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«NESSUN RISCHIO EPIDEMIA»
Una questione che negli ultimi mesi ha dato linfa a miopi allarmismi su presunte epidemie in via di diffusione a causa dei migranti, su cui i sanitari impegnati negli attenti screening al porto, tagliano corto: «Se 100 calabresi venissero chiusi in un capannone per tre mesi, uscirebbero tutti con la scabbia. Molti dei migranti hanno la scabbia perché viaggiano in condizioni igieniche insopportabili, dunque è facile che la contraggano. Ma attenzione, la scabbia non è una malattia infettivo diffusiva, ma un acaro che si attacca alla pelle e basta un trattamento di un paio di giorni a debellare. L’unica ipotesi di contrarre la scabbia per i reggini, è andare a coricarsi con i migranti. E non mi pare succeda. Di certo non si trasmette per via aerea».
Stesso discorso vale per la malaria, che sono solo le zanzare a trasmettere, come pure – ci tengono a segnalare i medici impegnati sul molo – vale per la Tbc. «Loro hanno le stesse patologie che abbiamo noi. La tbc anche da noi è endemica, c’è sempre stata, di certo non la portano i migranti. Su 100mila calabresi, quattordici o quindici possono avere la Tbc, di certo solo mantoux-positivi, che non vuol dire essere malati, ma risultare positivi al test cutaneo alla tubercolina. È chiaro che per loro le proporzioni sono diverse, su 100mila non saranno quattordici, ma questo è ovvio perché vengono da situazioni in cui le malattie infettive sono più diffuse, sono malnutriti, prima di imbarcarsi vivono in condizioni igieniche pessime, ma di certo non sono loro a portare la tbc, quella ce l’abbiamo di nostro. E poi non è che sia poi così facile il contagio».

 

«I MIGRANTI NON PORTANO L’EBOLA»
Ancor più inverosimile, ci tengono a evidenziare i sanitari, è che i migranti siano veicolo di una presunta epidemia di ebola. «Proprio per le caratteristiche del virus, è più probabile che – per ipotesi – il virus arrivi a Malpensa o Fiumicino, piuttosto che nei porti in cui approdano le navi che trasportano i migranti». Il tempo di incubazione del virus è di 15-21 giorni, ma nessuno uomo al mondo affetto da Ebola – spiegano i dottori – è in grado di arrivare dal Centro-Africa alla Libia, attraversando un deserto, per poi imbarcarsi su una carretta del mare. «Come possono dalla Libia portarci l’Ebola, se in Libia l’Ebola non c’è?».
Inoltre, specificano ancora i sanitari, anche se il virus si diffondesse in Europa, di certo non avrebbe gli stessi effetti devastanti che sta facendo registrare in Africa. «Non
solo noi mangiamo bene, viviamo in condizioni igieniche adeguate, abbiamo disponibilità di acqua corrente e di strutture sanitarie adeguate, ma di certo qui non c’è la medesima diffusione di Hiv e epatite A, B e C che c’è in Africa». Parole semplici, necessarie per contrastare i tanti, troppi allarmismi con cui a Reggio si è tentato di criminalizzare la presenza dei migranti. «Dicerie che si sono diffuse sfruttando la paura e l’ignoranza della gente», assicura l’architetto Alampi, responsabile comunale della Protezione civile, che nonostante si siano diffuse a macchia d’olio non hanno fermato il continuo afflusso di volontari che dalla scorsa primavera si sono spesi per l’accoglienza dei migranti arrivati sulle coste reggine.

 

RIMANGONO IN 100, GLI ALTRI AL NORD
Solo pochissimi dei quasi 11.500 disperati che hanno sfidato il Mediterraneo in cerca di un futuro sono stati ospitati a Reggio, nelle due strutture predisposte allo scopo dalla Prefettura, e ancora di meno hanno scelto l’Italia come Paese in cui richiedere asilo. Dopo un paio di giorni, necessari per recuperare le forze, i più hanno continuato il viaggio verso la Germania, la Svezia, la Norvegia e altri Paesi del Nord Europa. Un proposito comune anche ai migranti che in queste ore stanno sbarcando a Reggio. Solo 92 – 51 a Cosenza e 41 a Catanzaro, più gli eventuali minori non accompagnati la cui tutela è di competenza del Tribunale dei minori di Reggio e coloro che hanno necessità di cure mediche o ospedalizzazione – si fermeranno in Calabria, mentre gli altri saranno smistati nei centri di accoglienza fuori regione secondo il piano predisposto dal Viminale che prevede che in 150 vadano in Piemonte, 200 in Lombardia, 250 in Veneto, 50 in Liguria, 60 in Toscana e 40 in Umbria. «Per noi è meglio essere smistati nei centri del Nord», dice un ragazzo siriano, che paziente attende di salire sull’autobus destinato a Torino. «Più a nord ci mandano, più facile sarà uscire dall’Italia».

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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