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La centrale della droga era Gioiosa

REGGIO CALABRIA I bagagli erano pronti, i biglietti fatti, il percorso stabilito. Messi in allarme dal rinvenimento di una cimice, due dei fermati proprio questa mattina avrebbero dovuto prendere u…

Pubblicato il: 18/09/2014 – 11:32
La centrale della droga era Gioiosa

REGGIO CALABRIA I bagagli erano pronti, i biglietti fatti, il percorso stabilito. Messi in allarme dal rinvenimento di una cimice, due dei fermati proprio questa mattina avrebbero dovuto prendere un aereo che li avrebbe portati all’estero, dove avrebbero fatto perdere le proprie tracce. Un piano semplice, progettato in fretta ma che avrebbe anche potuto funzionare se all’alba di questa mattina non avessero trovato alla porta i carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria e del gruppo di Locri, pronti ad eseguire il fermo emesso dalla Dda non appena si è avuto contezza dei propositi di fuga dei due dei principali indagati. In manette sono sette persone, fra cui il boss Giuseppe Jerinò, il broker Angelo Scuteri, e altri collaboratori – Demetrio Tripodi, Rocco Ameduri, Marino Vallelonga, Pietro Bellucci e Antonio Di Giorgio – mentre rimangono indagati a piede libero altri cinque accoliti, tra i quali anche alcuni imprenditori del settore del commercio di legnami. Per la Dda, sono tutti a vario titolo coinvolti in uno strutturato traffico di droga in grado di far transitare centinaia e centinaia di chili di cocaina sull’asse Bolivia – Olanda – Romania – Santhià (Vercelli), ma la cui regia rimaneva salda a Gioiosa Jonica, regno del boss Peppe Jerinò. «Erede del patriarca Francesco, Jerinò – spiega il procuratore aggiunto Nicola Gratteri – ha ereditato lo scettro del comando di quella che era una delle famiglie d’élite della ndrangheta della Locride, messa un po’ in ombra negli anni 90 dal pentimento di uno degli elementi di vertice, nonché fratello del patriarca, Vittorio Jerinò, noto per essere uno degli autori del sequestro Ghidini». A mettere gli inquirenti sulle tracce del nuovo business della famiglia Jerinò è stato un nuovo collaboratore di giustizia, il cui nome – quanto meno per adesso – gli inquirenti preferiscono non rivelare. La famiglia – spiegano – non ha accettato di entrare nel programma di protezione, dunque si teme che su di loro si possa abbattere la vendetta del clan, messo a nudo dalle rivelazioni del collaboratore. «Dichiarazioni genuine, dettagliate, spontanee, nonché logicamente compatibili con acquisizioni investigative successive», le definiscono il procuratore aggiunto Nicola Gratteri e il pm Paolo Sirleo nel decreto di fermo, che hanno permesso agli inquirenti di conoscere in maniera dettagliata le modalità operative, i canali di fornitura, gli strumenti utilizzati per eludere i controlli, ma soprattutto le persone coinvolte nella rete della droga tessuta dal clan Jerinò. Ma soprattutto dichiarazioni che hanno trovato riscontro nelle conversazioni intercettate, nei pedinamenti e in due clamorosi sequestri, effettuati in collaborazione con l’Agenzia delle Dogane – Ufficio centrale Antifrode e con la Direzione centrale servizi antidroga. «Sono stati sequestrati due ingenti carichi di droga – dice al riguardo il procuratore capo della Dda Federico Cafiero De Raho – uno di 329,2 kg, avvenuto nel 2012 nel porto di Caacupemì, in Paraguay, ed il secondo, di 70 chilogrammi, effettuato il 17 aprile scorso presso il porto di Rotterdam, in Olanda. Un dato importante perché significa che il clan era in grado di dirottare i carichi su rotte sempre diverse per evitare di attirare l’attenzione». Del resto, stando a quanto emerso dalle indagini, l’ organizzazione era strutturata in maniera tutt’altro che rudimentale. Tutto ruotava attorno alla Mondoparquet, ditta di lavorazione del legno con sede a Santhià, che lungi dallo svolgere tale attività, era utilizzata per effettuare importazioni di ingenti quantitativi di cocaina. Una ditta riconducibile ad Antonio Scuteri, personaggio non di secondo piano nell’organigramma del clan, che per gli inquirenti è «un broker internazionale, in grado di contattare ditte di import-export in qualsiasi angolo del globo, così come di rapportarsi a tu per tu con i narcotrafficanti, ai quali – spiega Gratteri – non ha neanche necessità di lasciare in consegna un ostaggio in attesa del pagamento del carico perché gode di massima fiducia». La coca – hanno scoperto investigatori ed inquirenti – viaggiava nascosta nei container di legname che la ditta – almeno formalmente – acquistava in Sudamerica per la produzione di laminati. «Nel caso del sequestro effettuato in Paraguay – dice il comandante della compagnia di Locri, il colonnello Giuseppe De Magistris – la droga era nascosta all’interno di assi di parquet, in cui venivano abilmente occultati i panetti di cocaina, mentre nel secondo caso la droga era stata inserita in piccoli spazi all’interno di profilati metallici, opportunamente richiusi». Tecniche di occultamento raffinate, come studiate in dettaglio – riferisce il colonnello – erano le modalità di comunicazione tra capi e gregari, che non solo utilizzavano schede sim straniere intestate a terzi, ma «in alcuni casi sono arrivati a percorrere quaranta chilometri pur di trovare una cabina telefonica da utilizzare». In generale, sintetizza infine il procuratore aggiunto Nicola Gratteri «questa indagine non fa che testimoniare alcune cose che la Dda di Reggio Calabria dice da tempo. Primo, che il porto di Gioia Tauro non è la principale porta d’ingresso utilizzata dalla ndrangheta per far entrare la cocaina in Europa. Lo stesso Salvatore Mancuso (il leader del gruppo paramilitare Auc, per lungo tempo re della produzione e vendita della cocaina in Colombia) che oggi è un collaboratore di giustizia, alla Dea ha detto che loro avevano paura di passare lo stretto di Gibilterra perché il Mediterraneo è il mare più controllato del mondo, ma soprattutto – continua il procuratore – che l’asse dei Paesi in cui lo stupefacente viene prodotto e dal quale viene spedito si va spostando sempre più verso sud, come in Paraguay e Perù». Deduzioni frutto di lunghe, complesse ed incessanti indagini che non mirano solo al sequestro dei carichi, ma ad entrare nel cuore di quel meccanismo che ha permesso alla ndrangheta di diventare leader nel traffico mondiale di stupefacenti, soppiantando «come l’operazione New Bridge ha dimostrato l’anno scorso – sottolinea Cafiero De Raho – anche Cosa Nostra».

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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