REGGIO CALABRIA Urla, strepiti, pianti, minacce all’indirizzo di giudici, pm e attivisti antimafia. I clan del Ponente ligure non hanno gradito per niente la raffica di condanne che ha sancito la chiusura del primo grado del processo “La Svolta”, il procedimento sulle presunte infiltrazioni della criminalità organizzata nella provincia di Imperia.
Una sentenza importante che ha affermato una verità processuale da lungo tempo ricercata dagli inquirenti: a Ventimiglia e a Bordighera esistono due ‘ndrine che negli anni sono state in grado di condizionare la vita politica, economica e sociale del contesto in cui si sono da lungo tempo insediate. Un quadro che non porta alla condanna dei due politici coinvolti nel procedimento, ma spedisce – e per lungo tempo- dietro le sbarre boss e gregari dei clan che hanno inquinato il Ponente ligure. Se l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino e il suo ex city manager, Marco Prestileo, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa perché avrebbero favorito la Marvon – società riconducibile alla famiglia Marcianò– nel collezionare appalti dalla società in house del comune di Ventimiglia Civitas, incassano un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, sono pene pesantissime quelle arrivate all’indirizzo dei boss dell’Imperiese.
Il tribunale di Imperia ha infatti condannato a sedici anni Maurizio Pellegrino, che dovrà pagare anche 60mila euro di multa, e Giuseppe Marcianò, mentre il figlio di quest’ultimo, Vincenzo, incassa una condanna a 13 anni di reclusione e 12 mila euro di multa. Quattordici anni di carcere vanno invece a Giuseppe Gallotta, condannato anche a 15mila euro di sanzione, e Antonio Palamara, mentre a dieci anni e sei mesi di carcere sono stati condannati invece Giovanni e Roberto Pellegrino, cui è stata comminata anche una multa di 43 mila euro. Incassano invece una condanna a sette anni e sei mesi Vincenzo Marcianò classe ’48 e Omar Allavena 7 anni e sei mesi, mentre è di sette anni la pena inflitta a Annunziato Roldi, Ettore Castellana, Salvatore Trinchera, Giuseppe Cosentino e Antonino Barilaro. A cinque anni e sei mesi più 20mila euro di multa è stato condannato Armando D’Agostino, mentre è di cinque anni la pena inflitta a Paolo Macrì e Giuseppe Scarfò. Vanno invece quattro anni e tre mesi, rimediati in continuazione con un’altra condanna, più 20mila euro di sanzione pecuniaria a Salvatore de Marte, mentre è di quattro anni e sei mesi più mille euro di multa la pena decisa per Giuseppe Calabrese e Nazzareno Alvaro. È invece di quattro anni più 1200 euro di multa la pena inflitta a Francesco de Marte, mentre i giudici hanno condannato a quattro anni Marcello Giovinazzo, Filippo Spirlì e Angelo Oliveri. Diverse sono però le sanzioni pecuniarie inflitte ai tre, se Giovinazzo dovrà infatti pagare 20mila euro di multa, sono invece 8mila per Spirlì e solo 1800 per Oliveri. Arriva infine una condanna anche per Alessandro Macrì, punito con tre anni e sei mesi di reclusione, mentre pene minori sono state comminate ad Angela Elia, condannata a un anno e dieci mesi con pena sospesa più cinquemila euro di multa, e Fortunato Foti, punito con un anno e quattro mesi di reclusione rimediati in continuazione con una precedente condanna passata in giudicato, più 10mila di sanzione. Oltre a Jason Allavena per il quale la stessa Procura aveva invocato l’assoluzione, escono “puliti” dal processo Rosario Ambesi, per il quale il pm aveva chiesto 1 anno 10 mesi, Stefania Basso per la pubblica accusa da condannare a 2 anni e 6 mesi, Enzo Gammicchia per il quale erano stati chiesti 2 anni e 8 mesi e Federico Paraschiva, per il quale erano stati chiesti 6 anni. Pene durissime, chieste e ottenute sulla base di un compendio probatorio fondato su circa diecimila intercettazioni, documentazione varia e innumerevoli testimonianze fra cui quella di due collaboratori di giustizia già condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso e per omicidio.
Fondamentali nei mesi scorsi si erano rivelate le parole del pentito Oliverio, che in aula aveva dichiarato: «A differenza di altre organizzazioni perché ci sono migliaia di locali attive, con tanti capi, c’è una sorta di sotto-struttura composta da teste di cuoio, responsabili, che si relazionano con i vertici. Esistono poi i cosiddetti invisibili: persone insospettabili. Come ad esempio tale S.M., incensurato, affiliato alla ‘ndrangheta e anche ad una loggia massonica. Queste figure hanno contatti con persone delle istituzioni. Ogni locale ha queste figure invisibili. La funzione? Innanzitutto occorre dire che la ‘ndrangheta agisce in due modi: militarmente, con agguati, attentati etc. questo avviene generalmente quando ci sono faide e contrasti interni. L’altro metodo utilizzato quello della delegittimazione. Se devono colpire una persona istituzionale, evitano di fare operazioni di tipo militare, genere per evitare di fare degli eroi. Per fare un esempio i calabresi hanno criticato ciò che ha fatto Cosa nostra contro lo Stato. Le figure invisibili, che possono essere “dormienti”, vengono svegliate e attivate per delegittimare una persona: che può essere un funzionario dello stato, un giornalista, etc. Nelle regioni del Nord, in particolare, usano questo sistema». Dichiarazioni che si incastrano con quanto emerso nei dibattimenti in Calabria negli ultimi anni, ma in Liguria hanno costretto molti a spalancare gli occhi su un’infezione che non pensavano possibile.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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