Luigi de Magistris, come pm a Catanzaro titolare dell’inchiesta “Why not”, e il consulente tecnico Gioacchino Genchi «hanno pervicacemente perseguito l’obiettivo immediato e finale di realizzare la conoscibilià dei dati del traffico dei parlamentari, non chiedendo l’autorizzazione alla Camera di appartenenza, pur di acquisire con urgenza di tabulati. La prova della loro collusione viene desunta non da meri sospetti o illazioni, ma proviene da un contesto univoco, comprovante l’intesa raggiunta e la messa in atto di una violazione comune e consapevole delle disposizioni di legge». Lo sottolineano i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Roma motivando la condanna a un anno e tre mesi di reclusione, per concorso in abuso d’ufficio, inflitta all’ex sindaco di Napoli e al suo esperto tecnico. I tabulati dei parlamentari, secondo l’accusa acquisiti irregolarmente, erano quelli di Romano Prodi, Francesco Rutelli, Marco Minniti, Antonio Gentile, Giancarlo Pittelli e Clemente Mastella.
«Non c’è motivo di dubitare – prosegue il collegio giudicante, presieduto da Rosanna Ianniello – che tra de Magistris e Genchi ci sia stata “condivisione di intenti e piena cooperazione” durante l’inchiesta “Why not”. L’ex pm appare come «il dominus delle indagini in assoluta autonomia quanto a scelta investigative, puntualità delle deleghe e strategie da perseguire», mentre Genchi «è il massimo esperto informatico, creatore di un sistema operativo di indubbia efficienza e decisività, accreditata dalle esperienze professionali note, di spiccato intuito investigativo».
Per il tribunale «è inattendibile la buona fede del pm de Magistris afferente le sollecitazioni del consulente tecnico d’ufficio su autorizzazioni da chiedere ai rami del Parlamento». Dall’istruttoria dibattimentale risulta smentito «che l’indagine “Why not” abbia riguardato solo di rimando i parlamentari coinvolti, a dimostrazione che il fine principale perseguito non fosse la ricerca della prova, bensì l’uso strumentale delle tecniche d’indagine telefonica in danno dei parlamentari e ai fini privati, d’inserimento nel cosiddetto Archivio Genchi e d’ulteriore trattamento non autorizzato. La compartecipazione delittuosa e il ruolo primario assunto dal pm trovano riscontro indicativo nel monito, rivolto a Genchi, di non arrestarsi di fronte a implicazioni di sorta. La logica comune – insiste ancora il tribunale – era quella di procedere senza rispettare le garanzie per cariche parlamentari, affatto sconosciute, e di giustificare ex post le violazioni che fossero emerse facendole passare per un “errore in procedendo” così eclatante da denotare la buona fede e comunque tale da poter essere sanato con una ratifica successiva, rinviabile a oltranza».
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