REGGIO CALABRIA Formalmente sedevano agli estremi opposti del consiglio comunale di San Ferdinando, opposte erano le pubbliche idee di gestione della comunità che portavano avanti, opposto l’elettorato di riferimento. Ma in realtà il vicesindaco Santo Cieli e il consigliere comunale d’opposizione Giovanni Pantano, qualcosa in comune l’avevano anche prima che la contestuale contestazione del reato di associazione mafiosa spedisse entrambi dietro le sbarre. Per i magistrati della Dda di Reggio Calabria che ne hanno chiesto e ottenuto l’arresto, tutti e due sono infatti i rappresentanti istituzionali degli ingombranti clan che soffocano San Ferdinando. Se il vicesindaco Celi è l’uomo del clan Bellocco- Pantano, satellite sanferdinandese della storica cosca di Rosarno, è a Pantano che è toccato rappresentare gli interessi della costola dei Pesce. Speculari nel rappresentare e tutelare interessi e affari dei clan costretti alla coabitazione nel minuto comune della Piana, speculari nell’appartenenza politica, su mandato delle ndrine Celi e Pantano sapevano all’occorrenza sperimentare un nuovo tipo di larghe intese, quelle criminali. Quelle che – in barba a elezioni, preferenze, orientamenti – sempre e comunque vanno a discapito della comunità.
L’ASPIRANTE GRILLINO, GARANTE DEI CLAN
Per sconfessarlo si è scomodato addirittura Beppe Grillo, seguito a ruota dai parlamentari pentastellati calabresi e dagli attivisti di diversi meet up che hanno scritto, detto, urlato che mai è stato autorizzato a parlare a nome dei Cinque stelle, ma del Movimento a San Ferdinando, Pantano era considerato uno più autorevoli rappresentanti. Agitatore di popolo, la sua notorietà era cresciuta quando – sull’onda della protesta per il trasbordo delle armi chimiche siriane nel porto di Gioia Tauro – aveva presentato le proprie dimissioni dal consiglio comunale, ma in quel civico consesso Pantano aveva curato interessi ben diversi da quelli dei cittadini. Cognato di Antonio Pesce, “U Pecora”, personaggio di spicco dell’omonimo clana San Ferdinando, per gli inquirenti il consigliere comunale è l’uomo scelto dai clan come longa manus nell’amministrazione, quando il nuovo regime di concordia raggiuto fra le ‘ndrine impone un cambio nella ditta che gestisce la raccolta dei rifiuti urbani. La Evergreen – sentenziano i clan – deve andare via per lasciar posto a qualcuno gradito ad entrambe le consorterie, in seguito individuato nella Radi di Palmi. “In sostanza – afferma il pm Giulia Pantano che insieme al procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza ha coordinato le indagini – Pantano Giovanni operava al posto dell’intera locale di San Ferdinando, che aveva voluto la sostituzione dell’azienda Evergreen in quell’appalto con altra azienda “mafiosa” e voleva “comprare” il silenzio degli operai attraverso una nuova assunzione alle dipendenze della ditta prescelta nella nuova aggiudicazione dell’appalto”. Circostanze confermate dalle intercettazioni fra il sindaco Domenico Madafferi, finito ai domiciliari, e il suo vice Celi, cui il primo cittadino riferisce pedissequamente le manovre dettate da Pantano. Una precauzione – dicono gli inquirenti – per assicurarsi di non inquietare la cosca avversaria di cui Celi è espressione, ma che non fa che confermare la nuova stagione di pace stabilita fra le due consorterie, dei cui interessi il consigliere comunale d’opposizione è latore. Non a caso sarà lo stesso Celi, quando Madafferi gli riferisce del politicamente ingiustificabile protagonismo di Pantano nella gestione della vicenda delle municipalizzate, a rassicurarlo “Meglio!.. Meglio Micuccio per tanti aspetti!… Questo è buono, è buono questo fatto”. Certo qualche preoccupazione per la maldestra manovra di sostituzione della Evergreen, il vicesindaco l’aveva se è vero che con il figlio si farà sfuggire “sai di cosa mi spavento? Che devo pagare io per gli altri”. Ma così avevano disposto le ‘ndrine, disposte a convincere – con le buone o con le cattive – anche i tre operai che avevano assistito al danneggiamento a recedere da qualsiasi proposito di collaborazione con le autorità. Il loro silenzio verrà comprato con l’assunzione presso la nuova ditta aggiudicataria dell’appalto per la discarica – curata da Pantano e seguita da vicino dal sindaco Madafferi – tuttavia quando verranno convocati dai carabinieri per riferire sull’incendio dell’autocompattatore, le loro contraddittorie dichiarazioni non faranno che confermare i sospetti degli investigatori. “In realtà – sottolineano gli investigatori – Pantano Giovanni, Madafferi Domenico e Celi Santo accontentarono i due operai, per “chiudere loro la bocca”, in considerazione del fatto che gli atti intimidatori non avevano dato agli ndranghetisti la sicurezza di ottenere il silenzio sulla questione del riconoscimento degli autori del danneggiamento”.
ESTORSIONE STRADALE
Ma è probabilmente un altro episodio a restituire con precisione la caratura criminale del consigliere comunale Pantano. È l’inverno del 2013, Pantano, alla guida della sua automobile su cui viaggiava anche il figlio, striscia la vettura di uno dei medici del paese, Pasquale Corigliano, in quel momento parcheggiata lungo la via. Per il dottore sarà l’inizio di un incubo costellato di richieste estorsive da parte del consigliere di opposizione e del figlio, che nonostante avessero provocato l’incidente, “imbevuti di cultura mafiosa, sfruttano ogni circostanza per racimolare denaro con violenza e minaccia”. Sarà lo stesso Corigliano, dopo averlo confidato al fratello Gregorio, a raccontarlo terrorizzato ai carabinieri cui confida “Mi disse che la mia autovettura era vecchia e la sua nuova e per questo motivo voleva avere ragione. Anzi posso dir che è stato molto insistente nel pretendere la ragione in merito al sinistro; voleva a tutti i costi dei soldi: infatti a causa di quelle insistenze del giovane nonostante io sentissi di avere piena ragione in merito ai fatti accaduti, sfinito da quell’insistente richiesta e a seguito dell’intervento successivo del padre di quel giovan, disi loro di recarsi da mio cugino che fa il carrozziere in località Spartimento e si chiama Gerace Domenico”. Un atteggiamento che aveva terrorizzato Corigliano, cui Pantano si sarebbe spinto a chiedere un assegno in bianco al dottore che lui avrebbe provveduto a riempire con la cifra ritenuta più opportuna. Una richiesta che se possibile ha terrorizzato ancor di più il medico, corso a confidarsi con il fratello. Sarà proprio quest’ultimo – nonostante lo abbia spudoratamente negato di fronte agli investigatori- a contattare il sindaco Madafferi per una “mediazione”. Per i pm, Gregorio Corigliano “conoscendo la caratura criminale dei Pantano e conscio dei rapporti del consigliere Giovanni Pantano con Madafferi Domenico, si rivolse a quet’ultimo per intercedere ed evitare o quanto meno contenere le pretese estorsive ai danni del fratello Pasquale”. Intervento andato a buon fine, ma che non fa che confermare l’inquietante quadro a carico degli amministratori di San Ferdinando, cui non sfugge il vicesindaco Santo Celi.
IL VICESINDACO CON LA PISTOLA
Al riguardo, emblematica risulta l’intercettazione fortuitamente captata dai carabinieri, quando il primo cittadino Madafferi porta la sua auto in officina. È lì che le cimici dei Ros registrano due uomini affermare senza mezzi termini che Celi è un uomo sostenuto dai clan e che a loro deve la sua elezione. “Ma tu oggi come oggi, che arriva uno che ha preso duecento voti, duecentocinquanta voti, come a Santino Celi che ha preso cinquecento voti, quell’altro ne ha presi centoquaranta, centocinquanta al Battaglini, ma quando cazzo mai ha avuto centoquaranta voti il Battaglini, o trecento voti Santino ma stiamo coglionando, avete gli occhi chiusi? Allora questi voti da dove ti sono arrivati eh? Che cazzo gli devi dare a “quelli” per prendere trecento voti”. Parole pesanti, la cui rileva
nza penale è stata ancorata da inquirenti e investigatori ad altri riscontri, ma che non fanno che dimostrare che per tutti la caratura criminale di Celi era cosa nota. Del resto, si legge nel fermo è “Difficile persino la distinzione dagli altri affiliati, anche sotto il profilo comportamentale, nonostante l’importante carica pubblica rivestita. Perché Celi non si premura solo di portare avanti interessi economici mafiosi, ma parla da ‘ndranghetista e si comporta da ‘ndranghetista”. Non a caso – sveleranno le intercettazioni – è al vicesindaco che Raffaele Pugliese si rivolge quando cerca una pistola “riconoscendogli – affermano i pm – evidentemente la capacità di reperire delle armi e certificando una storia personale, ancora prima che politica, che è quella di un mafioso”. Con Pugliese, non solo si rende disponibile a fare da intermediario per la compravendita, ma ammette candidamente di avere anche diverse pistole illegali nascoste in casa perché “se hai coglioni gonfi e uno litiga per la macchina in qualche posto….con quella dichiarata ti scoprono subito”. Ha dimestichezza con le armi il vicesindaco, ne conosce le caratteristiche, la disponibilità e la quotazione sul mercato clandestino, tanto da poter fare anche da “consigliere” a Pugliese, cui raccomanda ”prendi almeno una 7,65”. Un acquisto che Celi cercherà di mediare attraverso il figlio Bruno, che – intercettato dalle cimici – assicura “pagando tutte cose si possono avere”. I due stanno discutendo di una cosa che al figlio del vicesindaco sembra stare parecchio a cuore: recuperare la caparra versata per un ricevimento di nozze presso il Resort Capo Sperone, in seguito saltato. Scartata l’ipotesi di rivolgersi al clan Gallico, suggerita dal vicesindaco, è Celi a bocciare la proposta del figlio di mandare “un’imbasciata” al ristoratore tramite il reggente dei Bellocco in paese, Ferdinando Cimato, per poi chiudere la discussione con un emblematico “parliamo noi”. “Diretto discepolo del padre, Celi Bruno affermava – sintetizzano gli investigatori – “o in un’altra maniera, tutte le maniere tento papà, o con la buona o con la mala!”.
GALEOTTO FU IL CHIOSCO
E se per il rampollo, Celi non esita a promettere “interventi” sul ristoratore, ancor più facilmente forse è in grado di assicurargli facilitazioni burocratiche per quel chiosco che Bruno ha segretamente aperto in società con uno degli uomini di punta dei Bellocco a San Ferdinando, Gregorio Malvaso, pur intestandolo formalmente a Georgieva Viktoriya Trigonova. Ma l’apertura di quell’attività non era stata gradita per nulla dai titolari del ristorante “L’ancora”, situato in prossimità del chiosco, che avevano denunciato alle competenti Autorità Comunali e a quella Portuale la disparità di trattamento effettuata dal Comune di San Ferdinando. Anche loro, ben dieci anni prima, avevano inoltrato richiesta per la concessione definitiva di occupazione del suolo demaniale ai fini commerciali, sempre rimasta inevasa da parte dell’Ente,che aveva invece con celerità rilasciato le necessarie autorizzazioni per l’edificazione del chiosco. Una protesta che aveva suscitato l’attenzione della della Capitaneria di Porto che, riscontrando l’irregolarità nell’occupazione di suolo pubblico da parte dei gestori del chiosco, aveva intimato ai concessionari l’immediato ripristino dello stato dei luoghi. Guai che Malvaso e Celi hanno attribuito alla pervicacia dei coniugi De Masi, titolari dell’Ancora, “rei” di aver denunciato le irregolarità, dunque “puniti” su mandato dei due con sette colpi di arma da fuoco sparati contro la vettura di proprietà. Un attentato di cui i due non hanno dubbio alcuno a riconoscere “la firma”, ma che per paura finiranno per non denunciare. Saranno tuttavia le intercettazioni a confermare che i coniugi sapessero a chi attribuire quel messaggio di morte. “Avete avuto qualche discussione con qualcuno? Dice no!…Invece l’avevamo avuta con Celi – dice la donna, commentando con il marito l’interrogatorio appena sostenuto di fronte ai Carabinieri – noi…davanti alla porta…eh…però non è che gliel’ho detto io… No, noi abbiamo discusso solo con lui, abbiamo avuto da dire e basta…eh…non è che abbiamo parlato con qualcuno noi, abbiamo parlato con lui e basta, non è che gli altri sono venuti e abbiamo parlato…non abbiamo parlato con nessuno…solo con lui abbiamo parlato e ha detto questa parola: <<se no facimu cu bonu, u facimu cu malu allora>>…se non lo facciamo con le buone lo facciamo con le cattive e basta”. Minacce pesanti, confermate poco dopo dal danneggiamento subito, che hanno spinto i titolari dell’Ancora al silenzio.
CELI, “ESPRESSIONE DELLA MAFIOSITA’ NELLE ISTITUZIONI”
Ma questa non è che alcuni delle innumerevoli conversazioni da cui emerga il peso criminale del vicesindaco, che insieme ai riscontri collezionati dagli investigatori, non possono che indurre i pm a un giudizio durissimo su Santo Celi , definito “un appartenente alla cosca Bellocco-Cimato di San Ferdinando; è il referente del clan, la longa manus nell’attività politica”. Per gli inquirenti, Celi “incarna solo il volto pubblico della ‘ndrangheta, e rappresenta l’espressione massima della mafiosità nelle Istituzioni”, ma soprattutto “è l’emblema della ‘ndrangheta nella gestione del Comune di San Ferdinando; cura dall’interno gli interessi illeciti mafiosi della cosca cui appartiene, nonostante, pubblicamente faccia in modo che non traspaiano i legami sottostanti”. Eppure, si legge nel fermo, non solo è legato “indissolubilmente a personaggi quali Bellocco Giulio, capo cosca di San Ferdinando, ai di lui figli Domenico e Berto, ai fratelli Cimato e a Malvaso Gregorio”, ma in realtà “frequenta davvero tutti gli ‘ndranghetisti di San Ferdinando, fa affari con loro, finanche gestisce in società delle attività; la sua stessa presenza in Comune si giustifica con la necessità del controllo dell’azione amministrativa da parte del locale potere mafioso e dell’aggiudicazione degli appalti a ditte riconducibile alla cosca”. In sintesi, è lui che “segna e rappresenta l’impossessamento del Comune di San Ferdinando da parte della cosca Bellocco-Cimato”.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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