REGGIO CALABRIA L’assassinio di Rocco Molè ha cambiato radicalmente gli equilibri nella Piana di Gioia Tauro, tanto da costringere la famiglia che fino a poco tempo prima era in grado di pretendere che le si chiedesse permesso per entrare in un qualsiasi settore di business a spremere come limoni tutte le attività a loro in maggiore o minore misura riconducibili. È quanto emerge dall’interrogatorio di Pietro Mesiani Mazzacuva, imprenditore da tempo considerato – e per questo già condannato – nell’orbita della famiglia Molè, cui è legato anche da stretti vincoli di parentela. Nuovamente arrestato nel giugno scorso, nell’ambito dell’operazione Mediterraneo, da qualche mese l’imprenditore ha iniziato a parlare con il pm Roberto Di Palma, ricostruendo non solo la pesante ombra del clan Molè sulle sue attività imprenditoriali, ma anche assetti, connessioni e contatti di quella famiglia che, prima del divorzio dai Piromalli, imponeva il proprio dominio su Gioia Tauro. Larga parte delle sue dichiarazioni sono ancora coperte da omissis. Agli atti del Tribunale delle libertà è finito solo lo stretto necessario a corroborare le accuse formulate a carico di nuove e vecchie leve del clan, ma proprio le alterne pressioni ricevute da Mesiani Mazzacuva per quei centri diagnostici che aveva aperto in Calabria e a Terni mostrano in filigrana le alterne vicende della famiglia.
IL PRIMA E IL DOPO
«Logicamente c’è una cosa – dice l’imprenditore al pm Di Palma che lo interroga – che fino al 2008 loro i soldi ce li avevano e quindi non si sono mai preoccupati dell’Imagine System eventuale, perché i soldi gli entravano, non avevano problemi». Tutto cambia con la morte di Rocco Molè, che segna non solo la scomparsa del massimo esponente del clan, ma anche un vero e proprio declassamento della famiglia, “ripudiata” dal potente clan all’ombra del quale era cresciuta. «Nel 2008 hanno perso tutto, gli è stato tolto tutto quello che avevano. Tutte le estorsioni e tutti diritti sui lavori, logicamente ogni lavoro che fa era fifty-fifty a Gioia Tauro». Una conferma delle intuizioni investigative che hanno letto quel divorzio criminale come la fine di un’epoca, anche se tuttora manca il tassello decisivo che spieghi chi, come e quando abbia deciso l’omicidio che lo ha sancito. Di certo, però, le dichiarazioni di Mesiani Mazzacuva non fanno che confermare il quadro emerso dalle inchieste degli ultimi anni, che hanno fotografato un clan sempre più in affanno e sempre più costretto a spostare altrove – in particolar modo nel Lazio – il baricentro dei propri affari. Un clan che proprio negli anni successivi alla morte del boss Molè ha bisogno di monetizzare, di spremere il più possibile le poche attività che controlla per poter ripartire.
LE CONSEGUENZE DEL DIVORZIO
Per questo anche la Imagine System, in cui i Molè non avevano messo capitali ma per la quale avevano dato il proprio iniziale benestare – vincolato semplicemente ad una regolare quota dei profitti da consegnare alla moglie di Molè – diventa fondamentale. Su quell’attività – oggetto per altro di sequestri e per lungo tempo in amministrazione controllata – la famiglia non ha mai distolto l’attenzione. A Mesiani Mazzacuva nel tempo hanno “consigliato” l’immobile in locazione in cui collocarla, il commercialista cui affidarne i conti e persino – ma senza successo – il personale da assumere. Mai con le minacce. «No, no, assolutamente, ma non esiste proprio, il… il lancio di una… di una parola, anche in modo garbato dovevo capirla al volo, dovevo capire al volo che… non avevo né la forza, né la capacità, vuoi pure la giovane età, vuoi tutto quello di cui si … si parlava, si diceva, si vedeva regolarmente, non era per me fattibile, diciamo, dirgli di no», dice al riguardo l’imprenditore. Di tanto in tanto, negli anni in cui erano ancora una cosa con i Piromalli – racconta al pm – gli venivano ricordati i suoi doveri. Come alla fine degli anni ’90, quando a rammentargli di «provvedere alla famiglie» era stato don Mommo Piromalli in persona. Una richiesta, riferisce Mesiani Mazzacuva, che lo avrebbe lasciato inizialmente interdetto, ma sarebbe in seguito stata chiarita dal cognato Domenico. «Mico ha detto – mette a verbale l’imprenditore – se ci sarà qualcosa, se non la sequestrano, se non la confiscano da un momento all’altro, dice, se esce qualcosa ricordati .. poi se la vede Valeria, tu non ti preoccupare, ce la vediamo noi, tra di noi, tu lasciali stare». «Va bene», la cosa non mi piaceva però non.. non ho avuto né la forza, né l’abilità, né … per contraddirlo, sinceramente, né per dirgli che non ne volevo sapere di determinate cose”.
«SIAMO ALLA FAME»
Le cose cambieranno con l’omicidio di Rocco Molè. Prima, quando i reggenti del clan sono dietro le sbarre, saranno i loro luogotenenti a esigere una quota aggiuntiva. «Mi è stato chiesto da Antonio Albanese classe 45 (…) Mi è stato detto che stanno morendo di fame, che c’era un patto e gli dovevo riconoscere qualcosa e quant’altro, non potevo pensare solo a mia sorella, eventualmente qua e là, che stanno morendo tutti di fame». Quando il nipote Antonio esce dal carcere, le richieste si fanno più pressanti e arrivano direttamente dall’omonimo ma più potente cugino del nipote, Antonio “u niru”, il figlio di Rocco Molè. «Sì, mi ha chiamato in disparte e mi ha detto che non è possibile continuare così, che io avevo un debito nei confronti di suo padre». Il giovane boss – stando a quanto riferito dall’imprenditore, che nel frattempo aveva lasciato Gioia Tauro – gli avrebbe detto senza mezzi termini: «Tu devi tutto a mio padre, sennò tu non potevi aprire, tu ti stai facendo d’oro, eh ..tu c’hai la tranquillità, te ne sei pure andato, cosa che gli era bruciata tantissimo a tutti, eh .. sapevo che dietro le spalle mi criticavano in quei momenti, diciamo, però mi …mi accennò che voleva centomila euro». Una richiesta impossibile da evadere per Mesiani Mazzacuva, che piuttosto si sarebbe convinto a vendere pur di recidere quegli ingombranti legami. Ma anche in quel caso il clan avrebbe preteso la sua parte.
CONDIZIONI DI VENDITA TARGATE MOLÈ
«Gli ho detto guarda – continua a raccontare l’imprenditore – visto come stanno le cose io voglio vendere, punto, non esiste! Lui mi ha detto: “No, un attimo, tu vendi a chi diciamo noi”. Ho detto: “A me non interessa, io voglio quanto mi tocca, poi chi subentra (…) non mi interessa niente. Io non voglio che sapere, io non voglio scendere a Gioia Tauro, punto!”». Ma Antonio “u niru” non è persona che si faccia dettare aut aut e al lontano parente acquisito lo fa capire in modo chiaro. «Lui mi ha detto: “Va bene ora vediamo, ma non ti credere che se io ti brucio una macchina, faccio un esempio, tuo nipote si schiera con te, possiamo litigare ma è sempre Molè!”». Mesiani Mazzacuva inizia a guardarsi intorno per vendere il centro, ha un primo abboccamento con i Tripodi, quindi contatta Eduardo Lamberti Castronuovo. «Ho avuto un altro approccio – dice al riguardo il collaboratore – con Eduardo Lamberti Castronuovo De Blasi, tramite Raffaele D’Agostino, intimo amico mio, che è venuto a vedere lo studio e quant’altro, poi però mi ha fatto sapere che da solo non lo poteva prendere, aveva chiesto… infatti lui gli aveva chiesto, diciamo, di entrare in consorzio a Giovanni Cassone, ed in un secondo momento poi mi ha detto invece che non poteva perché non glielo facevano trasferire». Un ulteriore contatto avverrà con Giancesare Muscolino, ma quella trattativa andrà in fumo prima ancora di iniziare perché sono i Molè a voler imporre l’acquirente. Mesiani Mazzacuva non ne conosce il nome, da lui si è presentato solo un consulente di Vibo di cui non ricorda il nome ma – confessa al magistrato – «ho avuto il presentim
ento che dietro l’operazione ci fossero i Campisi di Nicotera». Un’intuizione più del nipote che sua, afferma il collaboratore che al pm racconta: «Poi lui diceva: “Gli unici che a noi ci possono dare qualcosa in nero in questo momento sono solo chi bazzica con la droga, dice, gli altri non possono avere soldi, liquidità in nero”». Congetture destinate a rimanere tali, perché l’affare non andrà in porto e qualche mese dopo saranno gli arresti a mettere fine alla febbrile ricerca di denaro da parte dei Molè, che adesso devono anche fare i conti con un pentito di discreto rango, pronto a rivelare i loro segreti. Inclusi forse quelli – fino ad oggi inconfessabili – che potrebbero aiutare a ricostruire il contesto in cui è maturato l’omicidio di Rocco.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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