In apertura della manifestazione “Contromafie”, organizzata da Libera, il 26 e 27 ottobre, Roberto Saviano ha dedicato la prima metà del suo intervento al problema del proibizionismo in materia di droga, alle conseguenze che ne sono derivate, allo sviluppo del capitalismo mafioso, alle minacce per le democrazie e le società coinvolte. Ho pensato che, finalmente, la mia battaglia contro le politiche proibizioniste – alla quale ho dedicato numerosi articoli apparsi negli anni su questo periodico – trovava finalmente un ampio consenso e altrettanto rilievo mediatico. E tuttavia, non occorre farsi illusioni. Il problema non è ancora arrivato nell’agenda dei partiti politici, tanto meno del governo. Anche nelle proposte dei gruppi di lavoro o commissioni che dir si voglia, che si occupano di elaborare proposte in materia di contrasto alla criminalità organizzata, il tema viene sistematicamente eluso, ignorato. E così deve dirsi per l’Associazione nazionale dei magistrati. Eppure, il tema sollevato da Saviano dovrebbe costituire la prima preoccupazione per un Paese che ospita tre grandi organizzazioni mafiose e, tra esse, la ‘ndrangheta che nel settore del traffico internazionale di droga, è protagonista assoluta. In questi giorni si è appreso che nella città di Iguala, in Messico, 43 giovani studenti liceali sono stati prima sequestrati e poi barbaramente uccisi e bruciati, su richiesta del sindaco della città, di sua moglie, sorella di un narcotrafficante e della polizia locale. Quest’ultima, su ordine del sindaco, aveva sequestrato i giovani per consegnarli ai narcos che avevano poi provveduto a trucidarli. L’episodio, che ha suscitato sdegno in tutto il mondo, non è isolato. Negli ultimi anni si sono registrati in quel Paese circa centomila omicidi e trentamila sequestri. Dice lo scrittore Juan Pablo Villalobos – sull’edizione di domenica 9 novembre di Repubblica – «ogni giorno si trovano fosse comuni con centinaia di cadaveri. Desaparecidos di cui nessuno sente mai parlare e che hanno avuto morti altrettanto atroci». Il Messico è dominato da una “cupola criminale” nella quale si ritrovano alleati polizia, magistrati, politici, uomini di governo e narcotrafficanti. A cosa è dovuta questa esplosione di violenza, di ferocia, di corruzione sistemica delle istituzioni? Lo sanno tutti. Il Messico è divenuto il corridoio attraverso il quale transitano tonnellate di cocaina dai Paesi produttori agli Stati Uniti. Il passaggio è assicurato da cartelli criminali contrapposti, i quali pur di assicurarsi gli enormi profitti del traffico, non solo hanno istigato guerre intestine, ma, soprattutto, hanno stabilito un clima di terrore tra la popolazione, scatenando rappresaglie feroci contro chiunque osi soltanto parlare del problema e della necessità di contrastarlo. Gli uomini delle istituzioni sono corrotti e impauriti (magistrati e poliziotti onesti sono stati uccisi in gran numero) e il Messico appare oggi uno Stato in decomposizione. Qualcuno dirà a questo punto che il Messico è lontano e che il nostro Paese è immune da fenomeni del genere. Le mafie italiane hanno superato la fase delle sanguinose guerre intestine, che negli anni 80 hanno caratterizzato, quasi contemporaneamente, Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, con un totale di morti ammazzati dell’ordine di alcune migliaia. Oggi i proventi dei traffici realizzati dagli anni 90, e tuttora in corso, sono confluiti nell’economia legale, e i trafficanti si sono trasformati in classe dirigente. Il capitale criminale di provenienza mafiosa si è saldato con quello di provenienza imprenditoriale e politica, frutto di corruzione organizzata, spartizione illecita di appalti e forniture, accaparramento di risorse comunitarie, e molto altro ancora. Il collante, ancora una volta, è affidato a faccendieri, politici, affaristi, molto spesso di appartenenza massonica, secondo un sistema collaudato negli anni 70 e 80, ai tempi della strategia della tensione, dell’alleanza con la destra eversiva, con settori dei servizi, della politica e delle istituzioni. La differenza con il passato è che le alleanze tra poteri occulti, criminali e politici, erano allora accuratamente celate, facevano parte dei misteri d’Italia e delle oscure trame che in essa si svolgevano. Solo a distanza e in piccola parte sono state disvelate o comunque comprese. Non è un caso se ancora oggi la giustizia si occupa dei patti e delle trattive Stato-mafia degli anni 92-94 del secolo scorso e stenta a trovare soluzione a ciò che in quegli anni sconvolse la vita e le istituzioni del nostro Paese. Oggi, è diverso: oggi è tutto alla luce del sole. Le mafie imprenditoriali partecipano alla realizzazione delle grandi opere, il dialogo con gli esponenti delle massonerie è riferito giornalmente dai telegiornali, la politica, da venti anni a questa parte, è impegnata quotidianamente a delegittimare la magistratura, i giudici, la funzione giudiziaria, pur di ridimensionare il controllo di legalità sui crimini del potere. Proprio in questi giorni si sta giocando una partita decisiva su questo punto. Dall’esito e dai contenuti della nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati si capirà se la lobby di chi vuole mano libera nell’economia, nei traffici illeciti, nell’economia illegale, sarà riuscita a mettere la magistratura nell’angolo. I mezzi impiegati in questa battaglia sono enormi: torme di giornalisti, di commentatori politici, persino di magistrati (quando spostano l’attenzione su argomenti neutri), martellano l’opinione pubblica falsificando dati, intossicando le coscienze, accomunando la magistratura alla peggiore delle caste, invocando inesistenti richiami dell’Europa (nessuno dei politici ha letto la sentenza della Cedu che dice cosa affatto diversa), indicando falsi obiettivi. Tra questi vi è ancora quello di una mafia ormai scomparsa, comunque in fase recessiva, richiamata in vita da sceneggiati televisivi, romanzi e romanzetti. Persino il film Anime Nere, di cui ho curato la recensione qualche mese fa, viene utilizzato in questo senso, quando invece esso rappresenta impietosamente, la dissoluzione di un territorio, della sua cultura mafiosa, della vecchia civiltà contadina, divorata e stravolta dalla brutalità e dalla cupidigia mafiosa. Né può darsi credito a chi ritiene che la crisi economica e gli effetti della repressione penale e delle confische dei beni stiano riducendo le mafie alla miseria. Il fenomeno, se c’è, riguarda la classe operaia mafiosa, ma non certo la sua classe dirigente, che dialoga con i poteri forti, a livello nazionale e internazionale, muove capitali, condiziona le istituzioni. Pensare di potere usare gli strumenti di contrasto tradizionale, tra tutti l’articolo 416 bis, potenziato da ulteriori aggravamenti di pena, non mi pare una soluzione condivisibile. Nel 1982 le pene previste erano della reclusione da tre a sei anni per gli associati e da quattro a nove anni per i capi, oggi è da sette a dodici anni per gli associati e da nove a quattordici anni per i capi. Oggi si vorrebbe innalzare ancora tali limiti, mentre sarebbe necessario ridefinire la norma per comprendere nuove modalità dell’agire mafioso in relazione ai territori ed ai settori in cui le mafie operano. Tanto per fare un esempio, la ‘ndrangheta, dichiarata irrimediabilmente sconfitta a giorni alterni, si è presa la Lombardia, si è presa i lavori di Expo 2015, si è presa buona parte dell’economia e muove, nonostante tutto, tonnellate di cocaina da un continente all’altro. C’è il pericolo che inizi a prendersi il Paese. E noi parliamo d’altro.
*Magistrato
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