REGGIO CALABRIA Se a inguaiare Claudio Scajola sono state le spericolate e dettagliatissime chiacchierate con Lady Matacena, a complicare – e di molto – il quadro a carico dell’ex ministro, svelandone il ruolo a quanto pare non ancillare nella galassia di interessi economici e finanziari dei coniugi, sarebbero state email, lettere, atti e documenti, in larga parte conservati nell’archivio di Maria Grazia Fiordelisi, ex segretaria del politico armatore e custode di molti dei suoi segreti. È proprio lì, in quella cantinetta adibita a deposito di fascicoli e documenti, che i segugi della Dia hanno scovato quelle email che hanno permesso a inquirenti e investigatori di scoprire le strane relazioni fra l’azienda di energie alternative Fera, l’ex parlamentare di Forza Italia, all’epoca già condannato per mafia, Amedeo Matacena, e l’ex ministro Claudio Scajola, all’epoca titolare proprio della delega alle Attività produttive. Relazioni che pesano 5,9 milioni di euro e corrispondono al finanziamento che l’azienda milanese Fera srl ha ricevuto per il progetto “Freesun per la Liguria” nel gennaio 2009, proprio quando a gestire i milionari investimenti per l’innovazione tecnologica legati al decreto Industria 2015 era l’ex ministro Claudio Scajola. Un fiume di danari che per anni ha alimentato l’universo delle aziende che si occupano di energia alternativa e che gli uomini della Dia hanno visto affiorare anche in quattro messaggi telematici scambiati tutti nel giro di poche ore il 13 gennaio 2009, rinvenuti nell’archivio dell’ex segretaria.
Quei feedback che inguaiano «Scajo»
A dare il via alla conversazione è Cesare Fera, presidente dell’omonima Fera, la Fabbriche Energie rinnovabili alternative srl, che senza mezzi termini scrive: «La settimana prossima definiscono le graduatoria per i progetti presentati a Industria 2015 lo scorso settembre. Sappiamo che abbiamo superato la prima selezione che da 80 ha portato a 24 i progetti ammissibili. Ne passeranno solo 8\10. Hai più avuto feedback da Scajo?». Il suo destinatario è invece Alberto Acierno, ex deputato prima del Popolo delle Libertà, poi di Forza Italia, approdato nel 2001 al consiglio regionale siciliano grazie al listino dell’allora presidente Salvatore Cuffaro, prima di inciampare a fine 2009 in un’indagine per peculato. Sarebbe stato lui, che della Fera è consulente dalle ampie deleghe – nel suo contratto non c’è specificato oggetto o ambito di assessoramento – a girarla, senza nulla aggiungere, ad Amedeo Matacena, mentre meno di un’ora dopo si preoccupa di rassicurare Fera «prima di Natale ho avuto garanzie di buon esito». Gli interessi in ballo sono pesanti e l’impazienza cresce, così due giorni dopo Acierno – che di Matacena è buon amico, tanto da far registrare agli uomini della Dia diverse conversazioni di carattere confidenziale con Chiara Rizzo – riscrive a Matacena: «Scusami se ti rompo, ma se leggi l’email che ti ho girato, capisci il perché della mia insistenza – dice con apprensione il consulente della Fera –. Se per caso non riesci ad avere un aggiornamento, dimmelo comunque, perché non posso rischiare di fare cattiva figura con loro». Ansie destinate a finire poco più di dieci giorni dopo, quando alla Fera – come velatamente anticipato da Matacena – verrà comunicata ufficialmente l’aggiudicazione di un contributo di 5,9 milioni dal ministero dello Sviluppo economico per la realizzazione del progetto Free Sun, mirato a studio, progettazione e costruzione di impianti basati sulla tecnologia solare termodinamica a concentrazione (Csp, Concentrated solar power)».
Matacena, consulente senza contratto
Ufficialmente non c’è logica ragione che giustifichi la certezza con cui Matacena distribuisce rassicurazioni, tanto meno uno straccio di contratto che chiarisca il rapporto dell’ex politico armatore con la Fera, eppure mettono nero su bianco gli investigatori in una delle informative agli atti del procedimento “Breakfast” – fra i due esistono consolidati «rapporti economico- finanziari». Non a caso – si legge in quelle carte – la presenza di Matacena verrà registrata «con altri, a riunioni che avvenivano a bordo di un’imbarcazione a vela ormeggiata in un porto spezzino e lo stesso raggiungeva spesso, con autovettura con targa del Principato di Monaco, la sede della Fera a Milano». Rapporti che all’epoca avevano fatto saltare i nervi a uno dei soci di minoranza, Luca Salvi, all’epoca dei fatti entrato da poco in azienda e – probabilmente – già pentito della cosa. All’altro socio di minoranza, Sebastiano Falesi, scrive infatti: «Ho deciso che per quello che mi riguarda non voglio lavorare con Alberto (Acierno, ndr), né incontrarlo mai più, e ritengo opportuno chiudere i rapporti tra Fera e Alberto possibilmente in maniera soft. Portarci in ufficio uno come Matacena, in un momento come quello, è stata una cazzata veramente grossa».
I timori dei soci di minoranza
«Con loro non ci lavoro più». Parole che al pm Giuseppe Lombardo spiegherà che il 24 febbraio 2009, Fera sarebbe arrivato in ufficio, annunciando un imminente incontro con Acierno e Matacena, al quale anche Salvi è invitato a partecipare. «Per abitudine quando incontro una persona sconosciuta, faccio delle ricerche via internet e in quel caso, digitando il nome di Matacena ho avuto cognizione dei suoi guai giudiziari. Riferisco tale circostanza a Fera che rimase nell’occasione un po’ interdetto, ma mi comunica che non poteva disdire l’appuntamento perché erano già arrivati a Milano. Pertanto siamo andati a pranzo presso il circolo dell’Unione di Milano. Ricordo che durante il pranzo abbiamo discusso del più e del meno senza entrare in specifici argomenti, ultimato ciò rientrammo in società». Al socio di minoranza, Fera assicura che «l’appoggio del Matacena sarebbe stato utile nelle due regioni meridionali», ma questo non basta a convincere Salvi che un mese dopo, nello scambio di mail con Falesi, sarà netto: «No scusa Seba ma io con Albi (Alberto Acierno, ndr) non voglio averci a che fare (…) qualsiasi cosa faccia Albi sono quasi sicuro sia una minchiata, come quando ha portato in Fera quel simpatico soggettone (Matacena)». Una determinazione basata anche sui guai siciliani della Fera.
Scivoloni palermitani
Negli anni passati, l’azienda milanese è inciampata infatti in almeno due delle inchieste con cui la Dda di Palermo ha voluto approfondire cosa realmente si muova attorno al business dell’eolico in Sicilia. Nessuno dei vertici dell’azienda è mai stato indagato, tuttavia è dagli atti dell’inchiesta “Eolo” che emerge che è Pino Sucameli in persona – uomo d’onore del clan Tamburello, ammesso alla tavola del potente capo cosca Mariano Agate, prima dell’arresto per mafia anche capo dell’ufficio tecnico del Comune di Mazara – a difendere gli interessi della Fera tuonando «è cosa nostra», quando il costruendo parco eolico “Vento di vino” entra in rotta di collisione con un analogo progetto sponsorizzato da una cordata di politici e mafiosi. Sarà invece l’inchiesta “Eden” a far registrare lo stato di fibrillazione di Sebastiano Falesi – proconsole della Fera in Sicilia – quando le aziende direttamente riconducibili ai familiari di Matteo Messina Denaro tentano di accaparrarsi la gestione del cantiere in subappalto. Da entrambe le inchieste, l’azienda milanese e i suoi uomini usciranno puliti, ma sulla Fera rimarrà sempre un’ombra di ambiguità, sintetizzata nella definizione con cui viene bollata dalla Dda di Palermo che la definisce «società sponsorizzata da Cosa nostra».
Fera terrorizzato dal caso Scajola
Circostanze che non avevano preoccupato più di tanto il patron Cesare Fera, che al contrario – afferma la Dia sulla base delle confidenze di un
personaggio estremamente vicino all’imprenditore milanese – si era inquietato non poco nel maggio scorso per i possibili «sviluppi della nota inchiesta in corso che hanno condotto all’arresto di Scajola Claudio». Fra la Fera e l’ex ministro, infatti, esistono storici e mai chiariti legami che vanno molto al di là della partecipazione in veste di madrina di Maria Teresa Verda – la moglie di Scajola – all’inaugurazione del parco eolico della Rocca, costruito proprio dalla Fera srl nel comune di Pontinvrea, in provincia di Savona. Uno dei tanti impiantati dall’azienda in Liguria – dicono i dati raccolti dagli investigatori della Dia – anche grazie alla «particolare apertura di soggetti politici liguri a costruire parchi eolici per la produzione di energia elettrica nonostante attuali studi scientifici qualificati certifichino l’assenza delle necessarie condizioni di vento utili a rendere vantaggiosa l’implementazione di simili strutture». Ad affermarlo ci sarebbe anche un noto software messo a punto dall’università di Genova per misurare le ore utili di energia prodotta annualmente, «i cui risultati (negativi) – si legge – «sono stati puntualmente ignorati dall’azienda che ha presentato, al contrario, falsi risultati di produttività energetica dei costruendi parchi eolici». Ma questo non è che uno dei mezzi utilizzati dalla Fera per indorare la pillola e giustificare pubblici investimenti. Per gli investigatori, la storia industriale dell’azienda è uno zibaldone di irregolarità e artifizi, grazie ai quali la Fera avrebbe ottenuto «cospicui finanziamenti da Stato, Regione Liguria ed istituti di credito (…) attraverso un congiunto dei titolari della “Fera srl” operante in territorio elvetico». Circostanze – sospettano gli inquirenti – che potrebbero non essere estranee alla «presunta ingerenza nel settore di esponenti politici liguri tra cui il consigliere regionale Guccinelli Renzo e l’ex ministro Scajola Claudio».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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