REGGIO CALABRIA Approda in appello il processo per l’omicidio di Angela Costantino, la giovane moglie del boss Pietro Lo Giudice, scomparsa senza lasciare traccia il 16 marzo del 1994. In primo grado, il gup di Reggio Calabria Carlo Alberto Indellicati aveva accolto in pieno le richieste del pm Sara Ombra, comminando a Bruno Stilo e al nipote Fortunato Pennestrì, considerati rispettivamente il mandante e l’esecutore materiale dell’omicidio, una condanna a trent’anni. Una sentenza all’epoca criticata duramente dalle difese, perché a detta dei legali non aveva tenuto in conto della ritrattazione del principale accusatore dei due imputati – il pentito Maurizio Lo Giudice – che proprio alla vigilia della sentenza, aveva fatto pervenire una lettera al gup, alla Procura e alle difese, per fare marcia indietro su quanto in precedenza dichiarato. «A seguito del processo in corso inerente la scomparsa di mia cognata Angela Costantino – si leggeva in quella sgrammaticata missiva – faccio presente di non essere a conoscenza di che fine ha fatto, nel mio calvario di isolamento, all’inizio della mia collaborazione ricordo di aver fatto molte ipotesi e diverse versioni, sia verbali veri e propri attraverso ricostruzioni, intrecci, nomi di giornali, puntando il dito su più persone, pensando che fossero a conoscenza della sua scomparsa, ho puntato il dito su tutti, non ho escluso nessuno, ma io non ho mai visto nulla, come si sono potute evolvere le cose, senza mai aver saputo direttamente che fine avesse fatto Costantino Angela».
Dichiarazioni giudicate non determinanti dal gup, ma che per i legali Renato Russo, Giovanna Araniti ed Ettore Tarsitani sono la prova dell’inattendibilità del collaboratore, affermata anche in una serie di sentenze che hanno chiesto alla Corte d’assise d’appello presieduta dal giudice Luccisano di acquisire. Un’istanza su cui i giudici si sono riservati la decisione, rimandata alla prossima udienza.
Stando alla ricostruzione della Procura, confermata dalla sentenza di primo grado, la morte di Angela sarebbe stata decretata e eseguita all’interno della famiglia per lavare nel sangue la relazione extraconiugale che la donna avrebbe iniziato mentre il marito era in galera. Sposata giovanissima a Pietro Lo Giudice, Angela è solo una ragazza di 25 anni, già madre di quattro figli e vedova bianca di un boss in galera, quando – è la ricostruzione degli inquirenti – all’inizio degli anni ’90, si azzarda a pensare di poter vivere un’altra vita. O anche solo di strappare alla sua quotidianità di moglie, cognata e parente di “uomo d’onore”, dei momenti di felicità con un altro uomo capitato per caso nella sua esistenza. Un uomo del quale Angela resta incinta. Ma il marito è già da troppo tempo in galera e quella gravidanza non è giustificabile in nessun modo. Per la famiglia è un marchio di infamia, una manifestazione di debolezza, un segno di resa. Espropriata del diritto di decidere della sua stessa vita, del suo stesso corpo, Angela china la testa. Obbedisce. E abortisce. Ma – prosegue la ricostruzione della Procura – al clan non basta. Le notizie corrono, le voci girano e Angela è diventata, lei stessa, un marchio di infamia. Che deve essere cancellato in nome di un distorto concetto di onore, di cui le ‘ndrine si riempiono la bocca, ma che calpestano quotidianamente sotto le suole. In due strangolano una donna indifesa, in sei contribuiscono a occultarne il cadavere e il delitto. Un’intera famiglia sa e nasconde per quasi vent’anni. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti grazie alle rivelazioni dei pentiti del clan Lo Giudice – Maurizio prima, Nino il “Nano” poi – e di altri collaboratori di giustizia come l’ex capolocale di Gallico, Paolo Iannò, Angela sarebbe stata sorpresa in casa da Natino Pennestrì, all’epoca appena diciannovenne. Su mandato dello zio, l’avrebbe strangolata e insieme avrebbero fatto sparire il corpo, mai più ritrovato. Di lei rimarrà solo l’auto, fatta ritrovare a pochi giorni dalla scomparsa a Villa San Giovanni. All’interno, saranno opportunamente collocate anche le ricette mediche del Servizio di salute mentale che serviranno per giustificare la presunta depressione che – secondo le versioni fornite all’epoca dai familiari – avrebbe spinto la donna ad allontanarsi.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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