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L'intreccio politica-'ndrine dietro il progetto di attentato a Bruni?

COSENZA C’è il troncone mafia-politica dell’operazione “Vulpes”. Ci sono gli “omissis” che coprono i nomi di tre storici esponenti politici di primissimo piano di Cosenza. C’è il timore delle cosch…

Pubblicato il: 19/11/2014 – 14:31
L'intreccio politica-'ndrine dietro il progetto di attentato a Bruni?

COSENZA C’è il troncone mafia-politica dell’operazione “Vulpes”. Ci sono gli “omissis” che coprono i nomi di tre storici esponenti politici di primissimo piano di Cosenza. C’è il timore delle cosche di non poter procedere ad una riorganizzazione del proprio assetto verticistico, faticosamente raggiunto in quel di Cosenza dopo la bufera seguita alle rivelazioni del boss pentito Franco Pino. C’è un sacco di robaccia, insomma, nello scenario al quale lavorano febbrilmente in queste ore i carabinieri del Ros e del comando provinciale di Cosenza per venire a capo del progettato attentato in danno del pm Pierpaolo Bruni. Progetto che si porta dietro anche grande allarme per la sicurezza di un altro pubblico ministero della Dda catanzarese, assai esposto sul fronte cosentino: Vincenzo Luberto.

Le “carte” sono state trasmesse alla Dda di Salerno, competente essendo parti offese magistrati del distretto di Catanzaro, ma è qui, sull’asse Catanzaro-Cosenza, la corsa contro il tempo per chiudere indagini che eventualmente cominciano a trapelare innervosendo la ‘ndrangheta fino al punto da farle mettere in cantiere l’ipotesi di colpire militarmente Pierpaolo Bruni. Perché il tritolo le cosche e i clan lo usano non per punire ma per prevenire e sopratutto per bloccare inchieste che possono disarticolare piani e progetti di quel grumo affaristico-mafioso che, nonostante tutto, continua a dettar legge. Da qui la consapevolezza che delicatissime indagini vanno chiuse prima possibile, e sul tavolo e negli armadi blindati della Dda di Catanzaro di queste indagini ve ne sono parecchie. Le più delicate riguardano proprio Cosenza che ha smesso da tempo di essere una sorta di “provincia babba” come qualcuno, per interesse o per dabbenaggine insiste nel sostenere.

 

LA CATTURA DI LANZINO Diciassette novembre 2012, da poche ore Ettore Lanzino, boss della ‘ndrangheta cosentina e capo dell’omonimo clan, è nelle mani dei carabinieri del Ros che hanno posto fine alla sua lunga latitanza. Il covo che lo ospitava, allocato in un insospettabile appartamento della zona residenziale di Rende, è al centro delle perquisizioni condotte dai carabinieri sotto il diretto e personale controllo di due magistrati della Dda di Catanzaro: Pierpaolo Bruni e Vincenzo Luberto. Perché in Calabria i covi dei latitanti si perquisiscono, non capitano le distrazioni che capitano altrove.

E dai covi dei boss calabresi saltano fuori elementi sempre inquietanti, testimonianze di rapporti destabilizzanti. Capitò con la cattura di Pasquale Condello a Reggio Calabria, è ricapitato nel caso di Ettore Lanzino a Rende.

Cosa c’era nel covo perquisito sotto le direttive di Bruni e Luberto? Ancora non lo sappiamo, o almeno non per intero. Sappiamo però che poche ore dopo quella cattura e quella perquisizione Piepraolo Bruni, solitamente poco loquace, ai giornalisti dice poche parole ma di fuoco: «Emerge un allarmante quadro di collusioni tra la criminalità organizzata e le istituzioni sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza generale. Questa è la Calabria ma anche l’Italia». Il suo collega conferma ed aggiunge sibillino: «i latitanti della provincia di Cosenza sono finiti». Come dire le cosche dovranno darsi un nuovo assetto ed anche i loro referenti istituzionali saranno della partita.

 

L’OPERAZIONE “VULPES” Parte quella che le cronache conosceranno come operazione “Vulpes” ma ancora nessuno ha compreso bene il potenziale che stava dietro le parole di Bruni e di Luberto. Un anno più tardi le cose saranno un po’ più chiare perché arriva una prima retata che porta in carcere i gregari del boss Lanzino, Tra questi c’è Adolfo D’Ambrosio, ex dipendente del Comune di Rende, indicato dai carabinieri come l’uomo che avrebbe assunto la reggenza del clan Lanzino dopo la cattura del suo capo. Il difensore di D’Ambrosio reagisce con una nota che spedisce ai giornali: “Il mio assistito non è mai stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso né tantomeno può essere considerato elemento di spicco della cosca Lanzino, dato non ricavabile da alcun elemento”. Nella nota respinge anche ogni accusa di collusione o favoritismo con l’amministrazione comunale di Rende per via di quel bar (“Il Colibrì”) che avrebbe fatto da punto di ritrovo per gli uomini della cosca: è ospitato in alcuni locali comunali dati in concessione alla moglie del D’Ambrosio. «D’Ambrosio – scrive il suo legale – è separato dalla moglie dal 2007, il bar risulta di proprietà della donna ed era stato dato in comodato nel 2003, quindi ben prima dei fatti oggetto di indagini. L’uomo d’altronde non ha mai ricevuto favoritismi dal comune di Rende, anzi è stato licenziato, lavorava come giardiniere, dopo aver riportato una condanna mite e non certo per reato associativo, nel processo Twister nel 2008».

 

LA FIGURA DI D’AMBROSIO Tuttavia l’indagine “Vulpes” sembra testimoniare l’esatto contrario, specie con riferimento al rapporto tra imprenditori, mondo politico e clan Lanzino. Lo fa con il “narrato” che agli inquirenti consegnano “cimici” e microtelecamere piazzate dai carabinieri del Ros in cabine telefoniche, bar e persino in parchi pubblici dove vengono intercettati e filmati incontri tra boss, picciotti e imprenditori senza scrupoli. Spicca, come figura centrale dell’indagine, Adolfo D’Ambrosio, che si appalesa come successore di Ettore Lanzino. Finito in carcere anche il D’Ambrosio, la reggenza sarebbe passata a Roberto Porcaro, ma durerà poco perché i carabinieri raccolgono elementi sufficienti a spedire in galera anche quest’ultimo. 

D’Ambrosio, intanto, finisce al regime di carcere duro. Bruni chiede ed ottiene anche per lui il trattamento previsto dal 41bis. Un isolamento che evidentemente non gli impedisce di essere informato del fatto che l’opzione tritolo è stata ripresa in considerazione dalla ‘ndrangheta. Chiede di parlare con un funzionario della polizia penitenziaria e gli racconta tutto, invitandolo a fare presto perché la vita del pm Bruni è fortemente a rischio. Il tritolo sarebbe già pronto ed anche il progetto: l’attentato dovrebbe avvenire in una galleria della strada che da Crotone porta a Cosenza tagliando per la Sila. Bruni, infatti, spesso la percorre perché risiede a Crotone e deve andare in udienza presso il tribunale di Cosenza. Residua da chiarire, ed anche questo fa parte dell’indagine delegata alla Dda di Salerno, come sia stato possibile al D’Ambrosio avere le notizie riferite pur restando al 41bis. Ha avuto un canale di collegamento con il resto del clan? Oppure quel che sta rivelando era già patrimonio delle sue conoscenze ed ora parla perché teme che si passi alla fase attuativa? 

Intanto un dato è certo: dopo le sue rivelazioni anche Adolfo D’Ambrosio si è tagliato i ponti dietro le spalle. Ha avviato la collaborazione con i magistrati inquirenti e questo lo rende un testimone delicato ed importante proprio in quelle indagini sui tre big politici coperti dagli “omissis” oggetto di accertamento perché legati, elettoralmente e non solo, alle cosche lametine. C’è quanto basta per infliggere nuove fibrillazioni a uno scenario politico già di per sé tutt’altro che calmo. 

Paolo Pollichieni

direttore@corrierecal.it

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