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La "Dissonorata" incanta il Morelli

COSENZA Raccontare una storia che riesca a racchiuderne implicitamente altre non è semplice. Dare più voci di medesime situazioni in periodi ed epoche diverse comporta un grande studio e un innegab…

Pubblicato il: 22/11/2014 – 14:26
La "Dissonorata" incanta il Morelli

COSENZA Raccontare una storia che riesca a racchiuderne implicitamente altre non è semplice. Dare più voci di medesime situazioni in periodi ed epoche diverse comporta un grande studio e un innegabile talento. Corpo come veicolo e voce come strumento. Un’operazione che a Saverio La Ruina risulta naturale. La “Pasqualina” – portata in scena venerdì sera al teatro Morelli di Cosenza – della sua “Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria” è viva, immediata. Non necessita di tempi di lettura per decifrare ciò che viene detto o mostrato in scena. Entra al buio e in silenzio, siede nell’unico posto presente sul palco. Di lato a lui il musicista Gianfranco De Franco, che mostrerà il suo profilo al pubblico per tutta la durata dello spettacolo, sosterrà i momenti più suggestivi con il clarinetto, i sassofoni e un Glockenspiele.

Sulle prime note, il corpo/maschera di La Ruina diventa Pasqualina. Le luci consegnano la sua figura. Lei è lì. Indossa umilmente una veste chiara e a fantasia su pantaloni, calze e maglia scura. Ai piedi sandali neri. Nella staticità del corpo, gli occhi, la gestualità delle mani e il piede sinistro che si “esibisce” in una danza continua, daranno ritmo alla sua forma. La voce è dolce e narra con pacata disinvoltura la sua storia, che ha a tratti elementi tragi-comici, risultato di una naturale ignoranza e ingenuità. Sono gli anni della seconda Guerra mondiale. Pasqualina ha 19 anni, è per metà calabra e per metà lucana. È al limite del periodo in cui una donna viene considerata “zitella” in un paese conosciuto come “U paisi di zitelloni”. «Signurina che facivano vecchie ‘nta casa sinza spusà», recita in scena. Un racconto nei ricordi di una vita troppo breve, vissuta tra capre, pecore e maiali, la cui unica scuola è allevare il bestiame ed essere “promossa” a “vaccara” all’età di dodici anni. Ricordi confusi, alcuni rarefatti, di un periodo in cui si camminava «cu la capu vasciata a cuntà le petri ‘n terra» perché incrociare lo sguardo di un uomo era da «puttana», periodo in cui le donne vestivano a lutto quasi per tutta la vita. Donne in pellegrinaggio al monumento ai caduti «fatto per le vive che avanti a quel monumento ci morivano», più affollato dei cimiteri il 2 novembre, perché lì risiedevano gli uomini che avrebbero dovuto prenderle in moglie. Su tutti, un ricordo echeggia nitido nella sala del teatro “Morelli”: «Non tu po scurdà u momentu i quando hai morta». Come nelle tragedie, questa storia ha nel suo inizio una fine già annunciata e sempre come una tragedia può essere adattata a qualunque contesto o periodo, ripropondosi nel tempo perché senza età. Nei ricordi di Pasqualina ci sono quelli di migliaia di donne prima e dopo di lei, al Sud, in Italia e nel mondo. Donne umiliate dalla società, vittime dell’autorità paterna, figlie ingenue che sperano in un amore che possa affrancarle da un padrone, ma che le riconsegna nella mani di un altro. Donne che vivono «una guerra silenziosa, senza uomini. Che ti uccide senza uno sparo».

Donne che aspettano il ritorno dall’America di “amori” forse troppo fugaci. Donne che sognano, guardando i manichini di un negozio d’abiti da sposa, un matrimonio fiabesco, con quel principe che si spia dal balcone con la scusa di stendere i panni, che si guarda partire in macchina, di cui si aspetta un singolo segno di interesse, quello stesso principe che sarà l’orco di uno stupro che vìola l’onore. In alcuni casi non è solo il matrimonio a estingue il reato e Pasqalina lo scoprirà a sua spese quando la mano del fratello («Deve essere uno della famiglia a farlo», sentirà dire dal padre), le darà fuoco, proprio nel momento in cui il segno del suo peccato sarà troppo visibile. Sogna Pasqualina che il suo Saverio sia nato e cresciuto. «Ha nato u stesso juornu i Gesù, anzi è Gesù che ha nato u stessu juornu i Saveriu miu», ma lei è già vittima della vergogna, morta con la testa attaccata al petto, in quello che è il destino di una donna di vivere «cu la capu vasciata a cuntà le petri ‘n terra».

 

Miriam Guinea 

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