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A Catania solo carne calabrese

REGGIO CALABRIA Che fra le ‘ndrine reggine e i clan etnei di Cosa nostra ci fossero da tempo comuni intenti, prolifici traffici e fiorenti affari, per gli inquirenti è cosa nota fin da quando l’ind…

Pubblicato il: 26/11/2014 – 11:17
A Catania solo carne calabrese

REGGIO CALABRIA Che fra le ‘ndrine reggine e i clan etnei di Cosa nostra ci fossero da tempo comuni intenti, prolifici traffici e fiorenti affari, per gli inquirenti è cosa nota fin da quando l’indagine Olimpia ha svelato il rapporto privilegiato che fin dagli anni Settanta legava – ad esempio – il boss Nitto Santapaola ai fratelli Giorgio e Paolo De Stefano. Rapporti che hanno superato steccati, attraversato il tempo, spaziato dalle trame eversive ai traffici di droga e oggi si ripropongono – immutati – anche nelle più recenti indagini, come quell’operazione Caronte coordinata dalla Dda di Catania, che non più tardi di una settimana fa ha portato all’arresto di 23 persone e al sequestro di beni per 50 milioni di euro. In manette non sono finiti solo gli uomini di vertice del clan Ercolano-Santapaola, ma anche quegli imprenditori che hanno consentito alla famiglia di monopolizzare il settore dei trasporti per mare e su gomma, come del commercio della carne. Tutti settori in cui gli inquirenti non hanno avuto difficoltà ad individuare anche interessi delle ‘ndrine calabresi, o dei loro diretti rappresentanti.

 

L’OMBRA DI MATACENA SUGLI AFFARI DEI CATANESI
Stando a quanto emerso dalle indagini, infatti, è proprio alla porta della Amadeus spa – società riconducibile all’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, già condannato per mafia e oggi nuovamente indagato nell’inchiesta Breakfast – che Francesco Caruso, braccio imprenditoriale del clan Ercolano-Santapaola e formale titolare della società Servizi Autostrade del Mare, si rivolge per l’affitto di tre navi da utilizzare come vettori per i collegamenti tra la Sicilia e la Calabria. Un rapporto su cui gli inquirenti sembrano allo stato non voler approfondire anche – forse – per tutelare indagini in corso, ma che sembra seguito da vicino non solo da Caruso, ma anche da Vincenzo Ercolano, elemento di vertice dell’omonimo clan, finito in manette nell’operazione Dioniso. «È significativa del diretto e concreto interesse nella gestione della società in parola dell’Ercolano – annotano al riguardo gli inquirenti – la circostanza che lo stesso venisse coinvolto sistematicamente nelle trattative con gli amministratori della società Amadeus spa e che allo stesso venissero sottoposte in via preventiva le bozze degli atti che Caruso, nella qualità, avrebbe poi discusso con i vertici della predetta società». E, di certo, i rapporti con la Amadeus sembravano andare ben oltre la semplice joint venture, se è vero che nel 2005, prima ancora di aver formalizzato le proprie dimissioni, il presidente del cda della Amadeus, Sergio Giordano, si preoccupa non solo di comunicarlo a Caruso, ma anche di indicargli come muoversi per ottenere delle condizioni più vantaggiose. Aspetti destinati forse in futuro ad essere approfonditi, ma che non esauriscono contatti e legami fra i clan etnei e le ‘ndrine reggine.

 

A CATANIA SOLO CARNE CALABRESE
Anche nel settore delle carni, il clan Ercolano-Santapaola poteva contare su un calabrese. Si chiama Giovanni Malavenda, su di lui pende un’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma per la Dda di Catania, il suo rapporto con le organizzazioni mafiose era precedente agli accordi con le famiglie etnee. Legato da parte di madre alla famiglia di ndrangheta dei Carbone, per gli inquirenti Malavenda non solo è «un imprenditore “protetto” da cosa nostra catanese, che ne curava gli interessi in Sicilia, intervenendo a risolvere i problemi che lo stesso aveva con altre organizzazioni criminali» ma è anche «sospettato di essere un esponente della cosca dei Labate», monopolista del settore della carne a Reggio città. Contestazioni pesanti, che gli inquirenti fondano sulle risultanze investigative emerse in diversi procedimenti e oggi agli atti dell’operazione Caronte. Non è la prima volta infatti che il nome di Malavenda emerge in un’indagine delle Procure siciliane. Già nel 2009, l’inchiesta Revenge aveva raccontato come fossero stati proprio gli uomini del clan Santapaola a “proteggere” l’imprenditore calabrese dalle pretese della famiglia dei Cappello, chiamata in causa da alcuni dipendenti del supermercato Eurospin di corso Indipendenza a Catania perché da mesi non ricevevano lo stipendio. Pagamenti pretesi dalla storica famiglia etnea, che in quell’occasione avrebbe imposto a Malavenda anche il saldo della cosiddetta “tassa di sicurezza”. Una richiesta immediatamente rispedita al mittente dal reggente del clan Santapaola, che manderà due dei suoi uomini a riferire ai Cappello un messaggio preciso: Malavenda non si tocca. Parole che verranno riportate testualmente dai piccotti degli Ercolano-Santapaola, sorpresi da un servizio di videoriprese della polizia a riferire ai gregari della famiglia avversaria: «Siccome è una cosa nostra, … glielo dici a Giovanni (Colombrita, esponente di vertice dei Cappello, ndr) … gli dici “com’è questa storia?” Gli devi dire “è di Enzo”».

 

AFFARI E «ALTRE COSE» FRA REGGIO E MILANO
Per gli inquirenti, quello con Malavenda è un rapporto a cui il clan di Catania tiene particolarmente. Non a caso, all’indomani dell’arresto del reggente, due dei suoi più fidati gregari – Bernardo Cammarata e Rosario Bucolo – si precipitano in Calabria per assicurare all’imprenditore reggino che, nonostante il boss fosse finito in manette, nulla sarebbe cambiato e la famiglia sarebbe rimasta in grado di tutelare i suoi interessi in Sicilia. Un incontro confermato non solo dai tabulati e dalle celle telefoniche agganciate dai cellulari di Bucolo e Cammarata, ma anche dalla conversazione registrata il giorno successivo nei pressi di Catania, in contrada Scalpello, fra Bucolo e un altro affiliato Cesare Marletta, cui racconta il viaggio «nelle Calabrie» e spiega: «Compare, che fa, molliamo a Giovanni?». Un incontro – dicono gli inquirenti, senza però aggiungere dettagli – necessario anche per parlare di «altre cose», se è vero che qualche giorno dopo Bucolo – ascoltato dagli investigatori – dirà: «Sono andato ad incontrare con uno a Belpasso per discutere tante cose… perché abbiamo parlato con Giovanni… Giovanni quello della Calabria, che aveva discusso con quello… inc… i soldi». Circostanze che per la procura di Catania confermano che «ciò denota che vi è un interesse diretto dell’organizzazione mafiosa per fatti che interessano Malavenda Giovanni», come confermato da quel viaggio «d’affari» che vedrà gli uomini del clan Ercolano-Santapaola in trasferta a Milano, insieme all’imprenditore reggino. Ma non solo.

 

FOLLOW THE MONEY
A spazzare via ogni dubbio sui rapporti dell’imprenditore reggino con i clan etnei sono le curiose movimentazioni finanziarie che hanno interessato la società di Malavenda, destinataria di un bonifico di 2 milioni di euro effettuato dalla Due Emme srl, società di uno degli imprenditori al soldo degli Ercolano-Santapaola, Carmelo Motta. Nonostante la società avesse sede a Belpasso, Motta sceglie di aprire un conto corrente presso la filiale di Reggio Calabria della Banca Popolare del Mezzogiorno, ove operavano anche le imprese di Malavenda, e proprio da quel conto gira larga parte dei ricavi delle macellerie da lui gestite nei supermercati Fortè – nota catena di discount in Sicilia – proprio all’imprenditore calabrese, scelto come principale fornitore di carne. Tutti elementi che per i magistrati etnei conducono a una conclusione univoca: «Sussistono gravi indizi che Malavenda Giovanni, imprenditore che opera nel settore della lavorazione e produzione della carne con imprese in Reggio Calabria, abbia avuto un rapporto sinallagmatico con cosa nostra catanese a cui pagava somme di denaro ottenendo in cambio l’interessamento dell’associazione mafiosa per le varie questioni che sorgevano nel territorio e che interessavano le sue aziende».

 

RAPPORTI PRIVILEGIATI
Ma Malavenda non e
ra l’unico chiacchierato imprenditore calabrese per il quale gli Ercolano-Santapaola avessero un occhio di riguardo. Oltre a lui, sono infatti risultati in stretti rapporti con i catanesi anche soggetti come Antonio Cento, titolare di un’impresa di trasporti, i cui legami con i clan di Roccaforte del Greco hanno spesso fatto finire sotto amministrazione giudiziaria le società di cui era titolare, e Pino Evalto, per i pm «collegato ad organizzazioni mafiose del vibonese» e la cui famiglia apparterrebbe alla cosca Anello-Fiumara. Tutti soggetti con cui gli Ercolano- Santapaola fanno affari, a cui non esitano ad abbonare debiti e a risolvere guai, a testimonianza di un asse di sistema fra Catania e Reggio Calabria che sfida la contingenza, per diventare struttura. Ma questo toccherà ad altre inchieste raccontarlo.

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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