REGGIO CALABRIA Bisognerà aspettare il prossimo 24 marzo perché il pm Giuseppe Lombardo formuli le richieste di pena a carico dei trentacinque imputati del procedimento “Araba Fenice” che hanno scelto l’abbreviato. Così ha deciso oggi il gup di Reggio Calabria nel corso della prima udienza «di smistamento» fissata per stabilire il calendario del monumentale procedimento scaturito dall’inchiesta che ha svelato gli addentellati economici e imprenditoriali dei massimi vertici del direttorio dei clan reggini e che – stando alla calendarizzazione già stabilita dal gup – non andrà in definizione prima del prossimo settembre.
Fra gli imputati oggi alla sbarra non ci sono solo uomini delle più note famiglie della ‘ndrangheta reggina, come Francesco Audino o Domenico Serraino, ma anche numerosissimi professionisti, primo fra tutti l’avvocato Mario Giglio, accusato di essere il consigliori del clan e per questo rimasto dietro le sbarre, fin dal giorno dell’arresto. Su tutti quanti, gravano a vario titolo le accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni, abusivo esercizio dell’attività finanziaria, utilizzo ed emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, favoreggiamento, peculato, corruzione, illecita concorrenza ed estorsione, tutti reati aggravati dalle modalità mafiose.
LE ACCUSE
Per gli inquirenti sono tutti responsabili di aver costituito una holding criminale attiva nel settore dell’edilizia privata su diretto mandato e previo accordo dei clan di tutta la città. Dai Fontana-Saraceno, egemoni nella parte nord della città, ai Ficara-Latella, predominanti nella parte sud, passando dai Condello del quartiere di Archi ai Serraino-Rosmini-Nicolò, ai Lo Giudice di zona sud, fino agli Audino, famiglia che fa sempre orbita nella galassia De Stefano-Tegano ma ha la propria storica roccaforte nel quartiere di San Giovannello, tutti i clan erano parte di quella ben organizzata e strutturata «cabina di regia», che tramite imprese e professionisti compiacenti si sarebbe per anni accaparrata i più importanti lavori edili della città di Reggio Calabria. Si tratta della prova concreta, tangibile di quell’ipotesi investigativa che ha ispirato diverse inchieste e dibattimenti che negli ultimi anni hanno portato alla luce i nuovi assetti e le nuove strutture nati dalla pax mafiosa del ’91, quando la nascita della super-associazione ha sancito la fine della guerra fra clan che in meno di cinque anni è costata alla città oltre seicento omicidi. Una struttura spiegata in dettaglio da vecchi e nuovi collaboratori di giustizia che con le proprie rivelazioni hanno contribuito alle indagini. Fra loro, ci sono pentiti ormai storici, la cui credibilità è stata già sancita da diversi procedimenti come Roberto Moio, Nino Fiume, Consolato Villani, ma anche nuove voci che potrebbero essere in grado di fornire informazioni importanti su regole e assetti che le ‘ndrine si sono date in città.
LE INDAGINI
Inizialmente concentrate sulla figura di un soggetto poi risultato estraneo al quadro investigativo, le indagini quasi subito si sono concentrate sulla famiglia Calabrò, già nota alle cronache giudiziarie cittadine non solo perché il corpo di uno dei figli, l’imprenditore Francesco scomparso nel 2006, è stato ritrovato non più tardi dell’anno scorso sul fondale del porto di Reggio Calabria, ma anche perché l’altro fratello, Giuseppe, grazie alla sua brevissima collaborazione con i magistrati ha permesso di individuare i killer dei carabinieri Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi il 18 gennaio 1994 in autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla. Una pagina ancora misteriosa della storia di Reggio città, che forse potrebbe essere almeno in parte illuminata dalle risultanze investigative confluite nell’operazione “Araba fenice”. Il lavoro degli investigatori si è infatti concentrato sull’operazione immobiliare che i Calabrò hanno portato a termine nel quartiere di Ravagnese, storica roccaforte dei Ficara-Latella, su un terreno di proprietà di Rocco Musolino, nome di peso della ‘ndrangheta aspromontana ma con pesanti interessi in città. Un’operazione formalmente firmata dalla Edilsud di Giacomo Santo Calabrò e del figlio Antonino, ma che in realtà avrebbe beneficiato tanto del sistema bancario parallelo gestito dalle ‘ndrine – cui i Calabrò hanno avuto accesso tramite i fratelli Pasquale e Giovanni Bilardi, che hanno messo in contatto i Calabrò con tale Antonio D’Agostino – tanto dei capitali di due noti esponenti di famiglie criminali di Reggio Calabria, Giuseppe Stefano Tito Liuzzo e Antonino Lo Giudice, parente dell’omonimo ex collaboratore. Erano loro i veri e propri “soci occulti” della Edilsud S.n.c., al punto tale da essere interpellati in caso di qualsiasi decisione imprenditoriale, così come per la definizione delle compravendite degli immobili realizzati, senza mai apparire formalmente ed in alcun modo nella compagine societaria.
LIUZZO CUORE DELLA HOLDING
Per gli inquirenti, non a caso, è toccata proprio a Liuzzo, al termine di un vero e proprio summit mafioso, la scelta delle imprese che avrebbero lavorato presso il cantiere della predetta società, dovendosi occupare del completamento delle strutture murarie innalzate, della realizzazione degli impianti elettrici e idraulici, della posa dei pavimenti e delle piastrelle, della pitturazione interna ed esterna, degli infissi e di svariati altri lavori necessari al completamento dello stabilimento residenziale. Lavori e forniture sarebbe stati dunque affidati a “determinati” soggetti economici, risultati essere tutti legati alle varie cosche reggine operanti in città sulla base di un disegno preciso e previamente concordato fra i vertici dei clan, teso alla spartizione, a tavolino di tutti i lavori di edilizia, affinché ogni famiglia di ‘ndrangheta beneficiasse della «propria parte di competenza», consistente in sostanziose «entrate economiche». Un giro d’affari milionario, formalmente giustificato grazie a un vorticoso giro di fatture per operazioni inesistenti, grazie a cui commercialisti compiacenti potevano “sistemare” la contabilità delle aziende espressione della holding criminale.
MARIO GIGLIO E GLI ALTRI PROFESSIONISTI DEL CLAN
Un’attività imprenditoriale decisamente ampia e disinvolta quella di Liuzzo, che si avvaleva della collaborazione e dei consigli dell’avvocato Mario Giglio, cugino dell’ex magistrato reggino condannato qualche mese fa per i suoi rapporti con il clan Lampada. Il legale non solo si sarebbe reso disponibile come «canale di collegamento» per la conoscenza di eventuali indagini a carico dell’imprenditore in virtù dei suoi «importanti agganci e amicizie», ma «in veste professionale, non si limitava a mettere le proprie competenze a disposizione del Liuzzo – spiega Cafiero de Raho – ma lo consiglia su come riappropriarsi e continuare ad approfittare del bene che in precedenza gli era stato confiscato». Un’operazione illecita che – secondo le indagini – sarebbe stata possibile grazie all’infedeltà di una delle commercialiste che per il Tribunale di Reggio si occupa di beni confiscati, Francesca Marcello, custode della Euroedil, in precedenza sequestrata e confiscata proprio a Liuzzo.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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