REGGIO CALABRIA Non si può dire che la Procura di Catanzaro abbia già le idee chiare sull’identità del misterioso telefonista che circa due settimane fa ha chiamato al comando provinciale della guardia di finanza di Reggio, per annunciare un nuovo attentato in preparazione per il pm Giuseppe Lombardo, ma di certo – si lasciano scappare ambienti investigativi – il contesto è oltremodo chiaro. E inquietante. Sulla questione, la Procura di Catanzaro, che circa dieci giorni fa ha ricevuto dal comando reggino una dettagliata informativa sull’accaduto, ha già aperto un fascicolo blindatissimo, nell’ambito del quale sono stati disposti approfondimenti a largo raggio, che almeno per adesso rimangono assolutamente riservati.
Quello che filtra è che di certo non si tratta della chiamata di un mitomane, tanto meno di un folle, ma di qualcuno che ha a disposizione elementi dettagliati sulla vita e sulle abitudini del sostituto procuratore Lombardo. Oltre alla chiara minaccia arrivata all’indirizzo del pm – «dite a Beppe Lombardo che se non la smette lo ammazziamo» – il telefonista ha infatti dato anche indicazioni molto precise – e pericolosamente verosimili – sui punti in cui potrebbero essere piazzati i duecento chili di tritolo, che stando all’anonima fonte qualcuno avrebbe per lui già preparato.
C’ENTRA IL CASO MATACENA?
Ma ci sono anche altri elementi che la Procura di Catanzaro sta valutando e hanno direttamente a che fare con la tempistica dell’intimidazione stessa. A magistrati e investigatori, non è infatti sfuggito che la misteriosa e inquietante telefonata di morte all’indirizzo del pm Lombardo è arrivata proprio dopo il deposito dell’ultima informativa relativa al cosiddetto “caso Scajola”. Quasi trecento pagine pesantissime che non solo tessono il filo conduttore fra quell’indagine che ha visto l’ex parlamentare di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e la sua attuale posizione, ma provano la persistente operatività di Matacena anche a Reggio Calabria, dove la galassia imprenditoriale a lui riferibile si è rivelata grande mattatrice dei maggiori appalti pubblici, banditi e realizzati negli ultimi dieci anni. Un dato solo apparentemente circostanziale o casuale, come in parte lascia intendere la terza parte di quell’informativa, non a caso visibilmente criptica e omissata.
IL BARICENTRO DA SALVARE
Alla luce degli approfondimenti fino ad ora svolti e su cui c’è stata solo una parziale discovery, Amedeo Matacena appare infatti non solo un abile dissimulatore di un giro d’affari e interessi potenzialmente sconfinato, ma soprattutto uno degli elementi fondamentali di una trama di relazioni e contatti che arriva toccare il cuore della macchina dello Stato e va molto al di là del rapporto con l’ex ministro Claudio Scajola. Elementi che non fanno che corroborare l’iniziale ipotesi sintetizzata nel capo d’imputazione, citato nel decreto di perquisizione, con cui la Dda reggina ha ordinato agli uomini della Dia di passare con il pettine fitto case, uffici, abitazioni e soprattutto computer e archivi non solo degli indagati oggi a processo, ma anche di sopravvissuti della Prima Repubblica, tracimati nella Seconda, vecchi e nuovi faccendieri, figli e nipoti di nomi noti della politica e dell’economia, come i fratelli Giorgio e Cecilia Fanfani, Emo Danesi, ex deputato Dc sospeso dal partito nei lontani anni 80 perché massone, Giovanni Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), Marzia Mittiga Lefebvre, moglie dell’armatore Manfredi Lefebvre d’Ovidio, Daniele Santucci, presidente dell’Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni (e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio), senza dimenticare l’omonimo nipote dell’ex senatore Pdl Vincenzo Speziali, parente acquisito dell’ex presidente libanese, nonché capo storico delle Falangi maronite, Amin Gemayel.
TRAME PERICOLOSE
Un quadro di rapporti e relazioni che gli inquirenti oggi pretendono di chiarire e ricostruire – si evince dal decreto di perquisizione emesso anche a loro carico – alla luce di una contestazione forse ancor più grave di quella che pesa sul capo di Scajola e degli altri indagati, oggi a giudizio con rito abbreviato o ordinario. «L’ampiezza dei rapporti e la convergenza di intenti verso il Matacena – annotava infatti il gip nel decreto di perquisizione – permeano il materiale indiziario acquisito dal pm facendo comprendere quanto forti siano i legami e i rapporti con il mondo della politica, della diplomazia, le relazioni internazionali, frutto sicuramente della carriera del Matacena ma non tale da giustificare un intervento ad adiuvandum per la tutela di ragioni non apprezzabili giuridicamente. Basta porre attenzione allo sforzo di Scajola di incollare conoscenze, di sollecitare impegni, di stimolare conoscenze altolocate, mettendosi in gioco per ottenere permessi ed autorizzazioni con la consapevolezza di forzare regole e norme». Uno scenario inquietante che ha portato i pm a ipotizzare che la moglie di Matacena, Chiara Rizzo, il suo storico factotum Martino Politi, l’ex ministro Scajola, le segretarie dei due politici come «altri personaggi in corso di individuazione» abbiano lavorato per continuare a garantire all’ex politico armatore libertà e operatività non in ragione di rapporti affettivi o amicali, ma perché proprio lui sarebbe la «stabile interfaccia della ‘ndrangheta, nel processo di espansione dell’organizzazione criminale, a favore di ambiti decisionali di altissimo livello».
A CACCIA DEI MANDANTI
Un’ipotesi cristallizzata nel capo di imputazione che ipotizza a carico degli attuali indagati e di altri di cui l’identità appare attualmente top secret, l’esistenza di una «associazione per delinquere segreta collegata all’associazione di tipo mafioso e armata denominata ‘ndrangheta da rapporto di interazione biunivoca al fine di estendere le potenzialità operative del sodalizio di tipo mafioso in campo nazionale e internazionale» di cui farebbero parte – dicono fonti investigative – non solo i soggetti colpiti dall’ordinanza di custodia cautelare dell’8 maggio scorso, ma una serie di personaggi – sul cui nome vige allo stato assoluto riserbo – molto ben inseriti nella macchina dello Stato. Personaggi in grado – forse – di rendere miopi controlli e fornire agevolazioni, a richiesta snellire o ingarbugliare procedure, tessere trame e contatti, ma soprattutto – sempre – molto ben informati. Anche magari su sviluppi investigativi pericolosi per l’esistenza stessa dell’associazione e che dunque – in un modo o nell’altro – devono essere fermati. Con qualsiasi mezzo. Sia esso una fuga di notizie, un’informazione confidenziale, come le promesse di morte – concrete o promesse – che potrebbero far saltare il baricentro dell’indagine stessa. Scenari da brivido, che spingono i pm oggi a cercare chi teme gli sviluppi del caso Scajola tanto da spingersi a minacciarne il coordinatore, dentro e fuori la macchina dello Stato.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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