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"La pietra folle" del More

COSENZA In un dipinto del pittore fiammingo Bosch l'”Estrazione della pietra della follia”, un chirurgo è intento a togliere la pietra della pazzia dalla testa di un uomo, convinto che ivi ris…

Pubblicato il: 29/11/2014 – 12:39
"La pietra folle" del More

COSENZA In un dipinto del pittore fiammingo Bosch l'”Estrazione della pietra della follia”, un chirurgo è intento a togliere la pietra della pazzia dalla testa di un uomo, convinto che ivi risieda la colpa della sua stupidità. Attorno a essi, un prete e una suora assistono alla scena senza intervenire. L’attore Fabrizio Ferracane con “Orapronobis”, andato in scena ieri al teatro “Morelli”, affronta il tema della follia partendo proprio da «Haiu la petra di la fuddia ‘nta la mirudda», il cervello appunto. Elementi come sofferenza, ma soprattutto pazzia, squilibrio e alienazione di questo spettacolo, scritto e diretto da Rino Marino, hanno permesso a Fabrizio Ferracane di esibirsi in un monologo che è stata creazione di un’interpretazione costante e intensa. Il palco è avvolto da luci soffuse, il sipario è aperto a metà. Una poltrona a sinistra mostra lo schienale al pubblico. Sulla sedia il fantoccio di un prelato, riconoscibile da una mitra, simbolo di dignità ecclesiastica, e campanella sul bracciolo. A destra un’alta croce. Entra in scena sulle voci off di Annamaria La Barbera, Cristina Perrone e Emrelinda Palmeri che recitano come una litania l’ora pro nobis. È tremante, sul viso i segni del dolore e della stanchezza. Indossa abiti più grandi della sua misura, al braccio sinistro e sul petto i segni di un lutto. Ai piedi scarpe alla buona, senza lacci. In mano degli stracci neri che appoggia sulla croce. È in quel momenti che Fabrizio Ferracane inizia a esibirsi in una sorta di “danza della follia” contro un manichino e contro se stesso («Fui vattiatu cu’ l’acqua maliritta», dirà nel delirio).

Due “atti” di cui il delirio è protagonista assoluto. Il linguaggio, dialetto siciliano arcaico. Nella prima cornice la rabbia sembra essere diretta nei confronti di un mondo ecclesiastico, di cui il potere troppo spesso si fa detentore di somme verità a scapito della povera gente.«La vostra predica veni d’un pulpitu chi feti di carogna», e continua con «‘Un è sangu di Cristu, ‘ssu vinu, è sangu di diavulu pi’ li vostri panzi, chi v’addivintassi chiummu ‘nta li vuredda e petra lu pani, si fussiru sangu e corpu di ‘ddu Cristu.», per poi passare da un servilismo vestito di sarcasmo «Pirdunassi eccellenza, si ci rascu  li scarpi cu’ sta varva longa, tri jorna di varva, quantu si chianci un mortu», alla commiserazione di sé, pover’uomo emarginato dalla società «Portu  cimici e fetu di taverna. La testa, scacciatimilla  sta testa ch’havi serpi e gramigna pi’ capiddi e scampa’ a la furca pi’ siminari malaria». «Orapronobis, Eccellenza, orapronobis» è il leitmotiv della disperazione di un uomo vittima della sua stessa follia, pronunciato implorante come se volesse trovare la liberazione che gli necessità. La follia, un peso eccessivo da portare sulle spalle, così pesante che l’attore modifica la sua postura fino a stare in scena per quasi tutta la rappresentazione curvo sulle spalle, e in costante disequilibrio. Le campane che “suonano a morto” e il buio sul palco permettono il cambio scena che introduce al secondo “atto”, in cui «la disgrazia che veni un jornu d’agostu senza aspittata» narra della morte del padre, ucciso dagli avvocati e dalla sifilide, e della perdita del fratello maggiore, “scomparso” con la ninnananna di una filastrocca per bambini strozzata in gola.

La drammaturgia e la costruzione scenica hanno richiami cinematografici che moduleranno gli elementi della mise en scene nel loro farsi. Il montaggio tra la prima e la seconda parte svela che solo quest’ultima è la realtà, mentre l’inizio è un flashback del protagonista, un viaggio negli interstizi della propria mente visionaria, folle, disturbata, in una costante dimensione onirico – allucinatoria di un personaggio che non ha nome.

 

Miriam Guinea

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