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Capaci, la deposizione di Nino Fiume

REGGIO CALABRIA «Tra il 1991 ed il 1992 si parlava di colpo di Stato per destabilizzare… qualcosa così. Si parlava di dividere la Calabria, c’era un discorso della Magna Grecia, dividere l’Italia…

Pubblicato il: 02/12/2014 – 14:30
Capaci, la deposizione di Nino Fiume

REGGIO CALABRIA «Tra il 1991 ed il 1992 si parlava di colpo di Stato per destabilizzare… qualcosa così. Si parlava di dividere la Calabria, c’era un discorso della Magna Grecia, dividere l’Italia con nord e sud. Venne anche un esponente di Cosa nostra che non ricordo chi fosse». Sono parole inquietanti, ma che si intrecciano e confermano le indagini più delicate che oggi sta portando avanti la Procura di Reggio Calabria, quelle pronunciate dal pentito Nino Fiume, sentito come teste al processo Capaci bis, in corso a Caltanissetta ma celebrato per motivi di sicurezza nell’aula bunker di Rebibbia a Roma. Per lungo tempo braccio destro del capo crimine Giuseppe De Stefano, perché storico fidanzato della sorella Giulia, Fiume conosce i segreti più nascosti del potente clan di Archi. E proprio da questo osservatorio privilegiato – racconta ai giudici nisseni – ha potuto assistere a riunioni riservatissime e delicate, come quelle che anche prima degli anni Novanta «le famiglie avevano con personaggi ambigui come Delle Chiaie, Freda». Nomi storici dell’estremismo nero che a Reggio Calabria hanno un significato preciso e affondano le radici in quel cruciale decennio degli anni Settanta, che ha consegnato al clan De Stefano un posto di diritto nell’élite dei sistemi criminali. Un grumo di potere impastato di mafia, ‘ndrangheta, massoneria e pezzi deviati dello Stato che negli ultimi quarant’anni ha fatto pesare la propria ombra sulle pagine più ambigue e oscure della storia della Repubblica – anticipato dall’inchiesta Olimpia e individuato dall’indagine Sistemi criminali del procuratore Roberto Scarpinato – con cui il clan degli arcoti – ha confermato Fiume – sarebbe da tempo in contatto.
«Io ricordo – afferma il pentito – che Giuseppe De Stefano una volta, parlando dell’autobomba di Villa San Giovanni (l’attentato dell’11 ottobre del 1985 che avrebbe dovuto uccidere il boss Antonino Imerti che ha dato inizio alla seconda guerra di ‘ndrangheta), disse “i Servizi fanno la guerra e i Servizi fanno la pace”. Lui e suo padre erano rimasti scottati da alcune cose del passato. Era una paura che mi avevano trasmesso. Un’altra frase che ricordo era in merito ai Condello. Diceva “Condello ci ammazza e ci paga come reati. I Servizi ci ammazzano e non ci pagano”». Ma i De Stefano, stando a quanto raccontato dal collaboratore, non sarebbero stati gli unici ad avere contatti con pezzi deviati dello Stato, anche «i Mazzaferro, i Nirta» – aggiunge Fiume – avevano delle amicizie ambigue. Famiglie che come i De Stefano erano, e forse sono ancora, parte di quel “secondo livello” esclusivo e riservatissimo emerso in diverse inchieste, in cui sarebbero state cucinate strategie eversive, affari e omicidi istituzionali. Ed è all’interno di questo livello – dice il collaboratore – che veniva gestita una sorta di «banca di favori della ‘ndrangheta. Si facevano degli scambi d’interesse, si poteva collaborare scambiandosi anche armi “sporche”, impiegate in altri delitti».
Favori fra cui secondo alcune ipotesi ci sarebbe anche la consegna ai siciliani – secondo alcune ipotesi investigative mediata dai servizi – dell’esplosivo proveniente dalla Laura C, in seguito utilizzato da Cosa nostra per realizzare l’attentato di Capaci, in cui hanno perso la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Circostanze di cui Fiume ha sentito parlare – «di voci ne giravano tante», dice – ma che non è in grado di confermare. Di certo – riferisce ai magistrati nisseni – i clan calabresi in generale e i De Stefano in particolare erano contrari ad una strategia di attacco frontale allo Stato. «Io so – dice il pentito – che le famiglie calabresi erano contrarie alla strage di Capaci e a quella strategia che venne dopo. L’idea era che i magistrati o si avvicinano o si delegittimano, non si uccidono. C’erano riunioni a Milano in Calabria con i De Stefano, i Piromalli i Mancuso. Io non so se sia stato consegnato dell’esplosivo a Cosa nostra, quella ‘ndrangheta che conoscevo io so che era contraria ed era arrabbiata con Riina”. Ma per il collaboratore, i De Stefano non gradivano soprattutto che il legame fra le ‘ndrine calabresi e le strategie di Cosa nostra divenisse manifesto. Stando a quanto raccontato dal collaboratore, il giorno della strage «eravamo in un bar e tutti parlavano dell’attentato si vedeva la macchina. E tutti iniziarono a dire Totò, Totò, un tifo come se fosse Schillaci. Ricordo che De Stefano mi disse “che stai facendo cose che ti rovini, che fai il tifo”. Ma ero giovane e da giovane si fanno cose così».

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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