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La follia raccontata da Marino/Ferracane

COSENZA Il volto di Fabrizio Ferracane dopo lo spettacolo “Orapronobis” di Rino Marino, andato in scena venerdì scorso al teatro “Morelli” di Cosenza, ha perso i connotati del dolore e della follia…

Pubblicato il: 02/12/2014 – 15:31
La follia raccontata da Marino/Ferracane

COSENZA Il volto di Fabrizio Ferracane dopo lo spettacolo “Orapronobis” di Rino Marino, andato in scena venerdì scorso al teatro “Morelli” di Cosenza, ha perso i connotati del dolore e della follia che aveva sul palco. Non ci sono più gli occhi sgranati dallo squilibrio, i capelli spettinati dalle troppe botte sceniche. Eppure vive l’ansia da palcoscenico come tutti i grandi attori «Poco prima di andare in scena dico sempre “Ma chi me lo fa fare?”. “Ma chi me lo fa fare?”. Poi appena iniziano i primi sei-sette minuti in cui uno si lascia andare, quelli in cui governa se stesso, inizio a divertirmi, altrimenti che lo faccio a fare questo mestiere?».
La platea del teatro “Morelli” di Cosenza ha accolto con entusiasmo lo spettacolo del regista di Castelvetrano, euforia fomentata dalla presenza in platea di Francesco Munzi regista del film “Anime nere” in cui Ferracane ha recitato il ruolo di Luciano, e dell’attore Peppino Mazzotta. Insieme all’attore il regista e autore del testo Rino Marino.
In che modo si è preparato a questo personaggio?
«Rino mi ha fatto conoscere 3-4 persone con “disturbi” e a Castelvetrano c’è un “personaggio” conosciuto da tutti in paese. Anche con lui ho parlato, mi è capitato di seguirlo senza che mi vedesse. Il mestiere dell’attore è anche quello di “rubare”. La cosa che faccio è che cerco di rendere partecipe ogni parte del mio corpo che è una cosa bella da ricercare. Infilarsi in sudori nuovi, in “pelle umane” diverse, quindi provare a immaginare come può essere la vita di un “meschinazzo” nel senso di pover’uomo.
Si capisce. Non era solo la voce che parlava, lo faceva con tutto se stesso. Le non sta mai dritto, tranne quando c’è il cambio scena, ma dura un attimo.
«Si, oggi mi sono ritrovato in disequilibrio, un disequilibrio che arriva da tutta questa sofferenza. È come se lo colpissero a poco a poco. In “Anime nere” feci questo lavoro fisico. Mi ricordo che passeggiavo sul lungomare di Bianco pensando a Luciano facendo un esercizio che era un semplice movimento di spalle. Un giorno, quando mi guardai allo specchi pensai “Forse Luciano ha questa cosa che sta leggermente curvo”.
Cosa significa per lei fare questo mestiere?
«Se tu fai questo mestiere non devi prendere in giro chi sta davanti a te. Questa è una cosa fondamentale: chi sta lì deve partecipare in tutto. Questo è il mestiere secondo me. Tu devi corromperti per diventare un’altra cosa, per me l’attore è “corruzione”. A me non interessa niente di Fabrizio Ferracane che sta lì. Tu devi diventare un’altra cosa da te. Questa è secondo me una legge e non può essere altrimenti. Questa è la ricerca, la bellezza del lavoro del ricercare, studiare cose che poi arrivi a modellare con il personaggio».
Come è nata la sua collaborazione con Rino Marino?
«Ho incontrato Rino 4 anni fa. Ho visto un suo spettacolo “Scabbia” e mi sono innamorato della sua scrittura, quel tipo di scrittura che tratta di argomenti che a me appartengono molto».
Rino, come mai ha scelto il disagio psichico?
«Sono uno psichiatra, prima che uomo di teatro. È una cosa a me congeniale, quasi naturale. Mi sono sempre occupato della diversità, sia studiando dal punto di vista scientifico che da quello teatrale. Faccio teatro un po’ da quando sono nato. Ho fatto laboratori e poi ho cominciato a lavorare con Carlo Cecchi, non solo da regista, ma anche come attore in giro per l’Italia e poi per l’Europa. Questo è un testo particolare, perché è molto drammatico, tetro, plumbeo. Di solito il mio teatro è un’alternanza di comico e drammatico, c’è questo contraltare che bilancia un po’. Non è un testo consueto. I testi che ho scritto hanno a che fare con il teatro dell’assurdo, occupandosi di questo tema. Renato Nicolini scrisse in una recensione che il mio teatro era una specie di commistione tra il teatro del ‘900 di Beckett e Ionesco e il teatro di tradizione».
Perché è contestualizzato in un ambiente ecclesiastico?
«Di solito non è che mi propongo mai uno scopo, tipo “Voglio scrivere sulla Chiesa piuttosto che su altro”. È nato così. Questo “paziente”, soggetto disadattato, sicuramente un po’ matto, che comincia a delirare e avere allucinazioni, probabilmente perché questi lutti hanno innescato un suo dubbio sulla religione. È come se lui vedesse questa figura del prete che rappresenta un po’ il potere nero della Chiesa. È un frammischiarsi di voci, allucinazioni, sogni, tutto davanti a lui».
Sono stati i lutti che gli hanno fatto perdere la ragione?
«Questo non è così dichiarato. La follia è sempre una concomitanza di eventi».
Quali altri progetti?
«Uno lo stiamo preparando. Quello fatto prima si chiama “Ferrovecchio”, anche quello su soggetti disadattati. Anni fa ho scritto un testo che si intitola “La nave dei lunatici” che parla dell’inquisizione e di streghe. È un testo in lingua italiana molto barocco e denso di tantissimi personaggi. Ha avuto tanti consensi da un punto di vista critico come testo, ma metterlo in scena è un po’ un problema perché ha tanti personaggi».
Lei è ancora psichiatra o è solo regista e drammaturgo?
«Ho fatto teatro terapia con i pazienti. Ho realizzato dei film con pazienti psichiatrici, un cortometraggio e un lungometraggio. Il corto si chiama “Liturgia dei miserabili” e il lungo “Il viaggio di Malombra”. Quest’ultimo vede la partecipazione di Luigi Maria Burruano che è un attore straordinario e molto bravo».

 

Miriam Guinea

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