LOCRI Si è ufficialmente incardinato di fronte ai giudici del tribunale di Locri il processo “Metropolis”, scaturito dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri e dal sostituto Paolo Sirleo che ha svelato come le cosche Morabito e Aquino – due famiglie dell’élite della ‘ndrangheta del mandamento jonico – dal 2005 a oggi si siano assicurate la gestione, il controllo e la realizzazione di decine di importanti e noti complessi immobiliari turistico-residenziali, ubicati nelle più belle aree balneari calabresi. Ammesse senza troppi battibecchi fra accusa e difese le liste testimoni e le fonti di prova, è sulle parti civili che si è aperto il vero scontro in aula.
Quindici acquirenti stranieri, gabbati con la promessa di un appartamento in quello che doveva essere uno dei complessi turistici più rinomati della costa jonica, ma in seguito risultato totalmente abusivo, hanno chiesto di costituirsi parte civile nei confronti di Antonio Cuppari, ritenuto dagli inquirenti inserito a pieno titolo nel “locale” di Africo con la dote di “Vangelo”, ma soprattutto titolare della società Rdv che ha costruito il noto complesso turistico, come dei suoi soci Henry James Fitzsimons – l’uomo gravitante attorno all’Ira e al partito del Sinn Fein pizzicato a fare affari con gli Aquino e i Morabito – e Antonio Velardo. In questo modo, i 15 malcapitati sperano di recuperare almeno parte della somma versata per una casa da sogno in riva al Mediterraneo rimasta in seguito solo una foto sui depliant illustrativi, perché il complesso – privo dei permessi a costruire – non è stato mai terminato.
Un’istanza che il Tribunale solo in parte ha ammesso. I giudici hanno infatti accolto l’eccezione dell’avvocato Aldo Labate, difensore tanto di Fitzimons come di Velardo, che ha sottolineato che non solo ai due viene contestato un reato di riciclaggio che nulla ha a che fare con i permessi edilizi o l’effettiva realizzazione del complesso, ma anche che la società di cui entrambi erano titolari si occupava solo di intermediazione immobiliare. Argomentazioni accolte dai giudici, che hanno ammesso la costituzione dei 15 acquirenti solo nei confronti di Cuppari e della sua società.
Bisognerà invece attendere il prossimo 26 gennaio, quando le difese saranno chiamate a interloquire sull’importante produzione documentale integrativa prodotta dal pm Sirleo, per sapere quante delle informative, intercettazioni e rogatorie internazionali che il sostituto procuratore ha chiesto di acquisire entreranno effettivamente agli atti del procedimento che da oggi entra nel vivo.
L’INDAGINE
Al centro dell’indagine, oggi approdata in sede dibattimentale, le manovre dei clan Aquino e Morabito per trasformare i capitali illeciti accumulati nel cemento di piccoli e grandi complessi turistici con cui è stata sfregiata la costa jonica reggina. Un’area che – in barba a norme urbanistiche e di tutela ambientale, aggirate secondo la Procura grazie a tecnici comunali compiacenti come Francesco Sculli, padre del calciatore Giuseppe e genero del boss Peppe “Tiradritto” – gli uomini delle ‘ndrine avrebbero coperto di case, ville e piscine, pronte a essere vendute a sprovveduti acquirenti stranieri, agganciati da Velardo e Fitzsimons. Un business che le ‘ndrine si sarebbero divise in maniera salomonica: da Reggio a Siderno comandavano i Morabito, da lì fino a Catanzaro era tutto in mano agli Aquino.
Una spartizione chiaramente evidenziata anche dalla divisione delle quote della società “BellaCalabria”, uno dei terminali economici e finanziari utilizzato dai clan, finite per il 50% in mano a un prestanome degli Aquino e per il 50% a una testa di legno dei Morabito. E sono numeri da capogiro quelli del business che secondo l’accusa sarebbe stato messo in piedi dai due clan: 17 villaggi turistici, 1.343 unità immobiliari, 12 società, tutti beni di un valore pari a 450 milioni di euro oggi finiti sotto sequestro. Un affare dai volumi impensabili se paragonato alla miseria imperante nell’area jonica – precipitata in fondo a tutte le classifiche di vivibilità e reddito – ma che le cosche non gestivano da sole.
FITZSIMONS E VELARDO, I SOCI STRANIERI
Soci in affari di Rocco Morabito, figlio del boss “Tiradritto” e Rocco Aquino, rispettivamente al vertice dell’omonimo clan, erano infatti non solo una pletora di imprenditori spagnoli che nel corso delle conversazioni intercettate definivano la Calabria il nuovo Eldorado, in cui investire senza avere problemi, ma anche Henry James Fitzsimons.
A mettere in contatto l’ex terrorista con gli ‘ndranghetisti del mandamento jonico sarebbe stato un noto imprenditore campano, Antonio Velardo. Insieme sarebbero entrati in quella che – a detta degli inquirenti – si configura come una vera e propria joint venture internazionale tra uomini delle ‘ndrine e imprenditori spagnoli, che avrebbe dato vita a un articolato intreccio di società, italiane e straniere, finalizzato alla realizzazione di complessi immobiliari destinati al settore turistico-residenziale.
AQUINO E MORABITO AL CENTRO DEL BUSINESS
Un flusso infinito di capitali triangolavano fra il Nord Europa, la Spagna e la Calabria e solo grazie a un errore tecnico che ha portato al fallimento della società schermo italiana è stato possibile ricostruire tutto. A mettere gli inquirenti sulle tracce del business milionario che le famiglie Aquino e Morabito avevano messo in piedi è stato un controllo occasionale su un’auto proveniente dall’Albania effettuato da due finanzieri di Bari. A bordo non solo c’erano quattro persone di San Luca, già note alle forze dell’ordine, ma soprattutto le planimetrie del complesso turistico-alberghiero “Gioiello del mare” – oggi finito sotto sequestro perché totalmente abusivo – riconducibile alla Metropolis 2007 srl, una delle società della galassia dei clan. Un particolare che ha acceso l’interesse investigativo degli inquirenti che per anni hanno battuto la pista dell’edilizia turistica e residenziale fino a scoprire la rete tessuta attorno a sé da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Tiradritto.
Una doppia beffa per la Calabria, devastata dal cemento e piegata al consenso dettato dal ricatto occupazionale, grazie al quale i clan hanno consolidato il loro potere in cambio di un pugno di posti di lavoro.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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