REGGIO CALABRIA «Rocco Palermo è un soggetto che tutto è tranne che un sindaco equidistante che lavora per il bene della collettività. L’unica equidistanza che riesce a mantenere è quella fra i due rappresentanti della cosca. Il suo compito è quello di fare contenti gli uni e gli altri e quando si rende conto che non ci sta riuscendo, si dice disposto a dimettersi. È l’uomo della famiglia Alvaro nell’amministrazione pubblica e poco importa che non sia il sindaco di una grande città, perché quando si mette la fascia tricolore Rocco Palermo rappresenta l’istituzione. Vorrei davvero sapere cosa ne pensano gli altri abitanti di San Procopio del comportamento del sindaco totalmente asservito al clan Alvaro». È un ritratto devastante dell’ex sindaco e dell’intero sistema che governava il Comune di San Procopio quello che emerge dalla dura requisitoria del pm Roberto Di Palma al processo Xenopolis, scaturito dall’inchiesta che ha svelato l’ingerenza del clan Alvaro nelle istituzioni del centro aspromontano. Una famiglia «mafiosa doc» – la definiva il gip Tommasina Cotroneo nell’ordinanza di custodia cautelare – «che ha rapporti con le altre famiglie mafiose come emerge dalle sentenze passate in giudicato e non». Una «mafia storica» per il gip che è in grado di riprodurre tutti gli indici che per la giurisprudenza indicano l’esistenza di un’associazione mafiosa, «dalla paura della gente tale da non richiedere violenza, alle violenze sistematiche che tale paura hanno sedimentato a tali livelli da determinare terrore il solo nome del gruppo, alla organizzazione gerarchica complessa con mezzi e uomini, alle attività e finalità non singole ma massicce e capillari su tutti i negozi e tutti gli appalti, alla pubblica amministrazione e alla politica che si tenta di deviare, subornare, influenzare ed infiltrare». Ma per il gip Cotroneo, il clan Alvaro è soprattutto «mafia vera perché si ritiene padrona piena ed esclusiva del territorio, con tutti i relativi poteri. È mafia che vive anche del “prestigio” dei capostipiti mitici, intatto anche con la detenzione, per come emergente dalla serie di dichiarazioni incrociate di collaboratori che dipingono prestigio, alleanze, potere ricattatorio e capacità e possibilità di comunicare determinazioni dal carcere». Tutte caratteristiche dell’associazione che non sono scomparse con la morte di don Mico Alvaro, storico boss che ha avuto un ruolo fondamentale anche nella negoziazione che ha messo fine alla seconda guerra di ‘ndrangheta. A raccogliere il bastone del comando sono stati infatti i figli Cosimo e Antonio Alvaro – oggi alla sbarra nel procedimento – in grado di estendere il raggio d’azione del clan dal piccolo centro aspromontano – la cui vita politica, economica e amministrativa era totalmente piegata ai voleri del clan – alla città. È a Reggio, città che Cosimo Alvaro aveva scelto come domicilio quando la sorveglianza speciale gli ha interdetto per tre anni il soggiorno a Sinopoli, che il figlio maggiore di don Mico è riuscito a mettere le mani su diverse attività imprenditoriali, che non si limitano a quelle che gli sono costate una pesante condanna nel processo Meta, ma che includono anche il noto bar Crystal. Il fratello Antonio, invece, grazie al supporto degli imprenditori Giasone Italiano e Domenico Laurendi, era riuscito a infiltrarsi nelle attività imprenditoriali nella provincia di Reggio Calabria, non solo nel settore dell’edilizia e della manutenzione stradale, ma anche dei lavori sulla rete del gas, attraverso sub-appalti o l’impiego di operai “sponsorizzati” dalla medesima cosca. Ma con Cosimo obbligato a stare lontano da Sinopoli, al fratello Antonio spettava anche – sostengono i magistrati – la vera e propria “gestione” della vita politica e amministrativa del piccolo centro aspromontano, drogata non solo con l’elezione dei candidati imposti dal clan, come l’ex sindaco Rocco Palermo, ma anche attraverso il controllo del tesseramento interno ai partiti. Un quadro pesantissimo e inquietante che ha indotto il pm Di Palma ad avanzare richieste pesantissime nonostante la diminuente di un terzo del rito propria dell’abbreviato. Il sostituto procuratore, veterano delle indagini sui clan della Piana, ha chiesto infatti al gup di condannare a 14 anni di carcere Cosimo Alvaro, a 10 anni il fratello Antonio Alvaro, a 9 anni l’ex sindaco Rocco Palermo e l’imprenditore Giasone Italiano. Richieste pesanti ma che rispondono all’altrettanto pesante impianto probatorio a carico degli imputati che adesso toccherà alle difese provare a smontare.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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