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De Masi a Renzi: «Salvi la mia azienda dalle ingiustizie»

RIZZICONI Antonino De Masi non ci sta a vedere la sua azienda chiudere e i suoi dipendenti in mezzo a una strada. L’imprenditore ha deciso di combattere ancora e di scrivere una lettera aperta al p…

Pubblicato il: 11/12/2014 – 12:26
De Masi a Renzi: «Salvi la mia azienda dalle ingiustizie»

RIZZICONI Antonino De Masi non ci sta a vedere la sua azienda chiudere e i suoi dipendenti in mezzo a una strada. L’imprenditore ha deciso di combattere ancora e di scrivere una lettera aperta al presidente del Consiglio Matteo Renzi, a diversi ministeri, al governatore Mario Oliverio, al prefetto di Reggio, al presidente della commissione Antimafia, al governatore della Banca d’Italia e alle principali sigle sindacali. De Masi ricorda come, dallo scorso 9 dicembre, i lavoratori della De Masi costruzioni srl – gruppo industriale che, prima degli attentati subiti dallo stesso imprenditore, aveva oltre 280 dipendenti, oggi rimasti in 150 – «hanno avviato come gesto estremo uno sciopero della fame in quanto l’azienda tra pochi giorni chiuderà ed essi perderanno il posto di lavoro». Una delle tante crisi di una delle tante attività produttive italiane? Non è proprio così. De Masi – la cui azienda da più di 60 anni costruisce macchine per la raccolta meccanizzata di olive, mandorle e pistacchi – sottolinea che il momento nero non è dovuto alla stagnazione del mercato, bensì «alle illegalità e ai crimini subiti, certificati dalle sentenze dei tribunali».
«Abbiamo presentato ai tavoli istituzionali un piano industriale che prevede entro 24/36 mesi dall’avvio non solo l’assorbimento entro pochi mesi dell’intero personale attualmente in cassa integrazione, ma l’incremento a regime dell’occupazione a circa 200 unità complessive», spiega l’imprenditore, secondo cui «il piano è fondato e supportato da progetti e relazioni industriali con multinazionali che consentirebbero l’immediato rilancio della realtà industriale». «Non abbiamo bisogno di aiuti pubblici, di elemosine o sostegno di alcun genere – continua De Masi –, ma solo del ripristino della legge».

La storia è nota alle cronache. Nel 2003 De Masi accusa alcune tra le maggiori banche nazionali (Banca Antonveneta, ora Monte dei Paschi di Siena, Banca di Roma, ora Unicredit e Banca Nazionale del Lavoro) di aver «sottratto oltre 6 milioni di euro dai nostri conti, addebitandoci interessi su crediti anticipati a tassi da usura».
Nel 2006 un funzionario di Banca d’Italia confermò tutto, «rilevando l’usura in 69 trimestri su circa 150 analizzati. Nonostante le nostre contestazioni in merito al ruolo di terzietà nella vicenda della Banca D’Italia, e dei metodi e criteri di calcolo utilizzati che, come confermato poi dalle sentenze, sono illegali e “filo bancari”, vi fu comunque la conferma dell’evidenza del reato», accertato in tutti i tre gradi di giudizio.
Il procedimento, terminato con la sentenza della Cassazione, «si riferisce comunque a un arco temporale che va dal 1999 al 2002, e per i periodi successivi, sussistendo la reiterazione del reato e delle illegalità subite, ho provveduto a depositare presso le procure competenti le ulteriori denunce penali ed a oggi vi sono i seguenti processi penali in corso», aggiunge l’imprenditore. Inoltre, ci sono altri procedimenti in corso di istruttoria «sia per il reiterarsi del reato di usura che per ulteriori e gravi reati»
«In tutti i processi e procedimenti – ribadisce De Masi – vi è sempre l’inconfutabile conferma dell’elemento oggettivo del reato. Ma, in questa vicenda, non c’è solo la rapacità delle banche. L’imprenditore ha dovuto fare i conti anche con le minacce della criminalità organizzata. «Io la mia famiglia e la mia azienda dall’aprile dello scorso anno siamo sotto protezione in quanto oggetto di un gravissimo atto intimidatorio con l’esplosione di 44 colpi di kalashnikov contro i capannoni dell’azienda e poi con ulteriori fatti che hanno messo in grave pericolo la nostra incolumità. La mia azienda poi credo sia l’unica in Italia che è presidiata permanentemente dall’esercito Italiano che attua la vigilanza armata nell’arco delle 24 ore», rammenta ancora l’imprenditore della Piana. Che oggi, «dopo 11 anni di battaglie legali e chiedendo a tutti giustizia», chiede il «riconoscimento» dei suoi diritti: «La mia famiglia si è privata di tutti i beni, abbiamo bussato ad amici e parenti per chiedere sostegno e arrivare vivi a una sentenza, siamo stati costretti a chiudere alcune aziende e a svenderne altre, e ad oggi ci troviamo con soli 150 dipendenti rimasti».
L’unità di crisi del Mise ha avviato un tavolo sulla vertenza, con la partecipazione dei ministeri dell’Interno e del Lavoro, «ma dopo un anno e mezzo di trattative e di rinvii, al di là del costante e fattivo impegno dimostrato dai soggetti istituzionali, ritengo che non si sia ben compresa le reale posta in gioco, che non è rappresentata da importi o elemosine più o meno generose, ma da un principio, quello della giustizia».
Anche gli istituti di credito – ammette De Masi – «appena abbiamo chiesto giustizia hanno prontamente chiuso i rapporti bancari, togliendoci la possibilità di lavorare, senza nessun’altra ragione che non fosse quella di impedirci di chiedere i nostri diritti. Grazie al nostro nome e alla bontà dei nostri prodotti, abbiamo continuato fino a oggi a mantenerci vendendo con pagamenti anticipati all’ordine, ma tale obbligata politica commerciale ci ha portato allo stremo ed esausti ed anche a seguito degli attentati subiti, abbiamo annunciato la chiusura dello stabilimento nel luglio dello scorso anno. Convocati al tavolo del Mise abbiamo presentato un complesso e dettagliato piano industriale in cui chiedevamo solamente che il governo si facesse carico di trovare i finanziamenti necessari per poterlo avviare, in attesa che la giustizia facesse il suo corso in quanto noi abbiamo il sacrosanto e indiscutibile diritto di essere risarciti. Ci è stato però detto che se non chiudiamo il contenzioso esistente con le banche queste si rifiutano di darci nuova finanza. Nell’interesse dell’azienda e del mantenimento dei posti di lavoro, abbiamo quindi manifestato la nostra disponibilità, proponendo una transazione pari al 25% dell’importo della causa civile di risarcimento danni in corso presso il Tribunale di Palmi del valore di oltre 215 milioni di euro. Sembra che una banca abbia arrogantemente affermato nel corso delle trattative di essere certa di sconfiggerci in tutte le sedi e per questo di non voler trattare, e sinceramente, visto la storia giudiziaria di questi undici anni, non so nel nome di quali leggi ciò possa essere affermato».
«Alla fine di queste snervanti e dilatorie trattative – puntualizza l’imprenditore – ci è stata quindi proposta una transazione del valore di 3 milioni di euro, con la formula del “prendere o lasciare”. Proposta sconcertante che non ci consentirebbe assolutamente di riprendere l’attività lavorativa e ha il solo fine, dopo aver allungato i tempi della trattativa per portarci vicini alla fine, di metterci davanti a un’offerta che non potremo più rifiutare». Questo è quanto successo. «Il Governo – secondo De Masi –, forse non avendo ben presente l’oggetto della vicenda afferma di non poter intervenire oltremodo in una lite tra privati, ma forse si dimentica che il mercato creditizio è un bene pubblico sottoposto alla tutela dell’articolo 47 della Costituzione e la violazione di tali norme, come nel caso dell’usura, di fatto prima vìola il bene pubblico e poi l’interesse della vittima».
Nella sua lettera aperta, l’imprenditore della Piana chiede alle istituzioni «se ritengono doveroso, corretto e dignitoso costringere un’azienda, una famiglia ed i suoi lavoratori alla fame, in presenza di fatti reato accertati e di ben evidenti responsabilità? Io ho rispetto delle Istituzioni ma vorrei che le Istituzioni non dimenticassero il fine a cui sono chiamate: la tutela del bene pubblico e dei valori sanciti dalle leggi e dalla Costituzione. Spero e confido ancora come cittadino e imprenditore che ha sempre creduto nei sacrali valori del mio Paese e all’eguaglianza di tutti davanti alla legge, che le Istituzioni non possano permettere che un gruppo di aziende sane, che hanno sempre combattuto delle forti battaglie per la legalità in un territorio difficile e c
omplicato e che garantiscono circa 150 posti di lavoro ai quali va aggiunto l’indotto, siano portate al tracollo da fatti e comportamenti posti in essere da istituti di credito, che sentenze dello Stato italiano hanno già individuato come illegali. Non rinuncerò mai alla mia dignità di essere un uomo libero senza padroni e padrini, voglio e pretendo giustizia, lo griderò forte e combatterò sino all’ultimo mio respiro per ottenerla: lo devo a me stesso, alla mia famiglia e ai miei dipendenti».

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