REGGIO CALABRIA Per sua stessa ammissione in sede di interrogatorio di garanzia, è lui a gestire «tutti i bar aziendali della Rai, quindi sono dieci bar», ma per i magistrati Giuseppe Ietto non è semplicemente un imprenditore di successo. Per il procuratore capo Giuseppe Pignatone e i pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini che hanno svelato il volto di “Mafia Capitale”, Ietto è l’uomo che gestiva gli interessi di Massimo Carminati nella ristorazione.
«Un ragazzo nostro» lo definisce il presunto boss, nato e cresciuto a Roma, ma le cui origini affondano saldamente in terra calabrese, in quel “mondo di mezzo” che forse puzza di ‘ndrangheta. Radici strappate bruscamente nel settembre 1972, dopo l’agguato in cui ha perso la vita lo zio di Ietto, Domenico, ucciso da un colpo alla spina dorsale che neanche i medici degli ospedali di Roma sono stati in grado di curare. Un tentativo di rapimento finito in tragedia – si disse allora – ma che non esaurisce i guai della famiglia, da allora trasferitasi in massa nella capitale. Problemi più che altro di natura giudiziaria.
Stando alle informative dei carabinieri messe agli atti dell’inchiesta, tra gli Ietto, storica famiglia di costruttori in Calabria, non mancano soggetti graziati da amnistie che hanno cancellato condanne per costruzione abusiva e omicidio colposo (con pena sospesa e non menzione), ma anche personaggi deferiti all’autorità giudiziaria per inquinamentodelle acque, detenzione abusiva di armi o appropriazioneindebita, arrestati per rissa e lesioni personali, denunciati per lesioni e porto abusivo di coltello (con assoluzione per mancanza di discernimento). I guai più seri arrivano però nel 2010, quando il padre di Giuseppe Ietto, Angelo, finisce ai domiciliari insieme ai fratelli Giuseppe e Raffaele perché indagati per associazione mafiosa. Non è dato sapere che esito abbia avuto quel procedimento, ma le accuse formulate nei confronti del padre e degli zii di Ietto, oggi sembrano trovare eco in quelle che i magistrati muovono a carico dell’ingegnere.
Così Carminati e i suoi chiamavano Ietto, che insieme al “Cecato” sembrava avere interessi ovunque, non solo nei bar della Rai. Insieme puntavano a un centro cottura nell’ala femminile del carcere di Rebibbia e già gestivano la fornitura dei pasti presso le strutture di accoglienza per minori stranieri non accompagnati, gestite dalla cooperativa “29 Giugno” e dal “Consorzio Eriches29” riferibili a Salvatore Buzzi.
Ma per i magistrati, Ietto era soprattutto un uomo a disposizione. Era lui a fornire al boss di “Mafia Capitale” le false fatturazioni necessarie a Carminati per rientrare di parte del denaro investito negli affari legati alle attività delle cooperative o depositato nei fondi a disposizione della coop, ma anche l’imprenditore disponibile ad assumere la sorella del Cecato in una delle sue società, non appena il boss di “Mafia Capitale” ha formulato la richiesta. Non per caso, dunque, Carminati sembrava intenzionato a entrare in società con lui per gestire il punto ristoro del centro sportivo dell’Olgiata, di proprietà della famiglia Ietto. Un ritrovo di lusso, con piscine, campi da tennis, palestre e “zone benessere” in cui Giuseppe Ietto aveva intenzione di aprire un’attività di bar-ristorazione, in cui nell’agosto 2012 Carminati è stato chiamato a inserirsi. È in quel periodo che gli investigatori lo sorprendono a «farsi due conti», dice il Cecato, passeggiando con l’imprenditore nel lussuoso centro sportivo. Per i magistrati, l’intenzione del boss di mafia capitale era quella di supportare Ietto nelle trattative «sfruttando il proprio potere d’intimidazione, derivante dall’appartenenza a un sodalizio criminale di tipo mafioso». Elementi sufficienti alla Procura di Roma per chiedere e ottenere l’arresto di Ietto come imprenditore «colluso, che partecipa all’associazione mettendo a disposizione le proprie imprese e attività economiche».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x