COSENZA Ama i thriller politici. “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, apre la lista. “Il mafioso” di Alberto Lattuada e “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo lo seguono. Usa “Avid” come programma di montaggio. «Però non lo so usare, non sono un montatore» e “Da Vinci colour correction” come sistema di controllo del colore delle immagini. Due registi che adora sono Paul Thomas Anderson, col quale vorrebbe lavorare, mentre con Joe Carnahan ha già girato “Smokin’ aces” e “A-team”. Mauro Fiore, direttore della fotografia e premio Oscar alla migliore fotografia per “Avatar” (2009), sembra un ragazzetto, nonostante qualche capello brizzolato. Ha un fisico sportivo, come lo stile che veste. Il suo accento americano ha un’inflessione cosentina. È nato a Marzi, nel Cosentino, nel 1965, ma nel 1971 è andato via: «I miei genitori sono emigrati a Chicago». Ride della sua pronuncia «il mio italiano è un po’particolare». È nella pausa pranzo del laboratorio che sta conducendo al Cams dell’università della Calabria. Il workshop di creazione cinematografica “Unicalinimmagine” impegnerà gli studenti dell’ateneo cosentino dal 26 al 31 gennaio e culminerà nella realizzazione di uno spot della durata di 3 minuti, finalizzato alla presentazione dell’università stessa. Il soggetto vincitore è quello di Gianluca Salerno, scelto da Mauro Fiore tra i 24 pervenutigli per poter partecipare al progetto.
Come è nata la sua passione per la fotografia? Che studi ha fatto?
«Sono figlio di emigrati. Ho iniziato a studiare negli Stati Uniti. Durante il liceo ho scoperto un interesse per la fotografia e ho iniziato a far qualche ricerca per trovare delle università in cui si studiasse. Sembrava strano, per me, studiare fotografia. Come famiglia non siamo legati all’arte, facciamo parte di un mondo più concreto. Mia madre è molto brava a cucire. Ho fatto due anni in un’università vicino casa. Dopo sono andato al “Columbia College” e lì ho preso la decisione di studiare cinema, perché univa i miei interessi: il suono, la musica, l’immagine, messe assieme al montaggio creavano le giuste sinergie. Dopo questo periodo, ho seguito un mio amico Janusz Kaminski che si è iscritto all'”American film Institute” e anche lui ha iniziato a cercare lavoro negli studi di Roger Corman che faceva film di successo. Lui dava la possibilità a qualsiasi giovane di fare un film assieme. Per Corman a 22 anni ho fatto il macchinista, poi il capo elettrico. Sono importanti tutte le fasi per arrivare fino in fondo: capo elettrico, macchinista sono lezioni che mi hanno aiutato a essere un direttore della fotografia bravo».
Lei ha detto di amare il Neorealismo, che faceva delle semplicità della storia e delle immagini la sua filosofia. Il 3D, al contrario, enfatizza la finzione cinematografia. Non crede che il tridimensionale possa togliere la semplicità all’immagini, piuttosto che aggiungere qualcosa?
«Il 3D è una tecnologia abbastanza nuova, anche se i film in 3D erano stati fatti negli anni 50, 60. Stesso argomento è stato fatto quando hanno fatto i primi film a colori. Quello era un disastro. Tutto veniva girato in bianco e nero e poi aggiunto il colore. Come facciamo noi, nuove generazioni, a ricreare una cosa che è già fatta? Il regista ha fatto quel film in bianco e nero. Adesso arriviamo noi e ci mettiamo il colore. La vedo una cosa sbagliata. Fare un film come “Ladri di biciclette” in 3D sarebbe una cosa molto antipatica. Il 3D va accettata come nuova tecnologia, cosi come va accettata l’immagine digitale. Abbiamo, invece, una nuova tecnologia da poter usare come espressione nuova delle nostre emozioni».
Come è stato scelto da James Cameron?
«Lui mi ha scelto dopo aver visto il film “L’ultima alba”. Per lui la fotografia del film era molto importante, perché è stata girata nella giungla, sul posto. Dal momento che “Avatar” è stato girato tutto al computer, per lui era necessario che il direttore della fotografia sapesse “manipolare” la natura. Abbiamo usato una procedura chiamata bleach bypass che è un sistema di sviluppo della pellicola che è stato progettato da Vittorio Storaro, sviluppato all'”Enr-The technicolor” di Roma».
In Nuova Zelanda come avete lavorato?
«Avevamo alle spalle un anno di riprese girate con la motion capture. Dopo è iniziata la fase della fotografia sul posto. Anche su questa abbiamo sviluppato delle tecnologie sulle quali io non avevo alcun tipo di conoscenza, ad esempio illuminare sul computer prima di andare sul posto, in Nuova Zelanda. Lavorare con Jim è molto interessante. Il mio lavoro con lui è così: prima che venga sul set, vado io a controllare le luci. Arrivo sempre prima di lui».
Ha lavorato anche con la pellicola?
«Si può dire che l’80% dei miei film è realizzato con la pellicola. Credo che nella pellicola ci sia un po’ più di rispetto della luce. Per me è molto importante il passaggio che ho fatto dalla pellicola al digitale. È come per un musicista classico suonare uno strumento elettronico. Io so suonare e dirigere la musica classica, ma so anche usare l’elettronica. Con il regista Antoine Fuqua abbiamo girato un film che si chiama “Southpaw” è la storia di un pugile. Abbiamo utilizzato delle camere che hanno indossato gli attori che avevano una risoluzione migliore della GoPro ».
Cosa ne pensa della fotografia del cinema italiano?
«Il cinema italiano è un cinema rispettato, molto importante. L’ultima cosa che ho visto, che mi ha colpito non solo per la fotografia, ma anche per il film in sé è stato “Gomorra”. È sempre un aspetto del Neorealismo italiano. Sorrentino, Garrone, Benigni, Tornatore, ma anche Fellini, Visconti, De Sica sono sempre apprezzati in America».
Si aspettava di vincere un Oscar?
«Non credevo di vincere, specialmente perché è un film di effetti speciali. Fare il discorso quando ricevi l’Oscar è un’emozione forte. Quando si arriva lì è come un sogno. Ma quando guardi giù e vedi Meryl Streep che ti guarda… ».
Prossimi film? Sarà in “Avatar 2”?
«Non si può sapere, ma sono alla ricerca di un progetto importante non solo come direttore della fotografia, ma anche come regista».
In tal caso, a chi affiderebbe la fotografia?
«A James Cameron».
Ovviamente.
Miriam Guinea
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