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Chiesti 4 anni di carcere per il perito infedele

REGGIO CALABRIA Quattro anni di reclusione per due episodi di calunnia, da considerare entrambi aggravati dall’articolo 7 che identifica l’aggravante mafiosa. È una richiesta severa, quella formula…

Pubblicato il: 12/02/2015 – 14:33
Chiesti 4 anni di carcere per il perito infedele

REGGIO CALABRIA Quattro anni di reclusione per due episodi di calunnia, da considerare entrambi aggravati dall’articolo 7 che identifica l’aggravante mafiosa. È una richiesta severa, quella formulata dal pm Sara Amerio, al termine della sua lunga requisitoria al processo contro Daniele Schinardi, il perito finito alla sbarra per aver accusato gli investigatori di aver falsato le prove a carico di Domenico Demetrio Praticò, imputato nel procedimento “Piccolo carro” all’esito del quale è stato condannato a 15 anni e 8 mesi di carcere. Per la Procura infatti «Schinardi incolpava il maresciallo capo Antonio Nucera pur sapendolo innocente con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare la cosca Ficara-Latella». Stando a quanto ricostruito dai pm Musarò e Amerio nella richiesta di rinvio a giudizio, nella propria relazione tecnica il consulente ha accusato Nucera di «aver manipolato il cd rom contente i tabulati telefonici in uso a Praticò Demetrio, in tal modo attestando il falso in un atto destinato a provare la verità e introducendo nel processo prove false a carico di Praticò (…) e di aver occultato i file relativi a tabulati telefonici acquisiti, omettendo di consegnarli alla di difesa di Praticò, che ne aveva fatto richiesta».
Nonostante l’artefatta perizia di Schinardi tesa a scagionare il proprio cliente, il procedimento Piccolo Carro ha riconosciuto il coinvolgimento di Praticò nella “tragedia” organizzata il 21 gennaio del 2010, quando una Fiat Marea carica di armi ed esplosivi inutilizzabili viene rinvenuta sulla strada che avrebbe dovuto percorrere l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una messinscena di cui Praticò, come elemento di peso del clan, sarebbe stato a conoscenza, nonostante abbia tentato di negare il proprio coinvolgimento anche attraverso la perizia e la testimonianza del consulente. Un reato che per il pm sarebbe maturato in due occasioni, il giorno del deposito della perizia di parte redatta da Schinardi, e quello della sua deposizione in aula al processo, ma «entrambe tese alla realizzazione di un medesimo disegno cioè screditare l’operato della polizia giudiziaria». Un progetto – ha voluto sottolineare la Amerio – che non sarebbe andato a vantaggio solo di Praticò, braccio destro del boss Ficara, ma dell’intero clan, perché avrebbe disinnescato l’intero impianto accusatorio messo insieme nel corso delle indagini. Una motivazione valida secondo la pubblica accusa per chiedere che il reato venga considerato aggravato dalle modalità mafiose, «perché se Schinardi – ha spiegato il pm – fosse riuscito nel suo intento ne avrebbe beneficiato tutta la cosca Ficara».
Nella sua consulenza prima, e nell’esame dibattimentale al processo “Piccolo Carro” poi, il consulente aveva tentato di smontare attraverso un procedimento empirico di sua elaborazione, fatto di «esame dei dati e rilevazione delle frequenze sul terreno» che lo hanno portato a puntare il dito contro il Ros, affermando prima nella propria relazione, quindi in aula: «Ci sono tutti i valori per poter dichiarare la non veridicità dei file consegnati; abbiamo appurato che i file consegnati risultano essere errati o artefatti […] non dando la possibilità di mettere tasselli importanti allo sviluppo della verità». Ma sotto il fuoco di fila delle domande del pm, era stato lo stesso Schinardi a dover ammettere che il suo metodo «non possiede alcuna scientificità» e che lui stesso non è in possesso le competenze né tecniche, né investigative, per poter desumere un potenziale percorso dall’esame – non sempre corretto – di un tabulato.
Ammissioni che non lo hanno salvato né dalla reprimenda in aula del pm Giovanni Musarò, né dal procedimento aperto a suo carico, nell’ambito del quale a luglio è stato spedito ai domiciliari e sottoposto all’obbligo del braccialetto elettronico, per poi finire in carcere a dicembre per aver ripetutamente tentato di comunicare con persone non autorizzate.

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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