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Nessuna paura del fucile. Giuditta Levato a cent'anni dalla nascita

Il 28 novembre del 1946 faceva freddo quando Giuditta Levato veniva colpita al ventre da un colpo di fucile. Era incinta di sette mesi e aveva 31 anni, essendo nata il 18 agosto del 1915. Quest’ann…

Pubblicato il: 18/02/2015 – 10:30
Nessuna paura del fucile. Giuditta Levato a cent'anni dalla nascita

Il 28 novembre del 1946 faceva freddo quando Giuditta Levato veniva colpita al ventre da un colpo di fucile. Era incinta di sette mesi e aveva 31 anni, essendo nata il 18 agosto del 1915. Quest’anno ricorre il centenario. L’occasione è buona per tentare di ridare, attraverso il protagonismo di donne coraggiose che hanno costruito la democrazia nel Mezzogiorno, significato e passioni alle nostre vite pubbliche. Nel 1946, il tribunale di Norimberga emette 20 condanne a morte contro i criminali di guerra nazisti, l’Italia adotta l’Inno di Mameli, la radio riprende le trasmissioni, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite stabilisce il proprio quartier generale a New York, Papa Pio XII, dopo l’affermazione elettorale delle sinistre a Roma, si scaglia contro le forze della sinistra e l’Unione Sovietica, Harry Truman proclama ufficialmente la fine delle ostilità della seconda guerra mondiale. Frattanto, nell’ospedale di Catanzaro la contadina di Calabricata muore fra dolori atroci. Il senatore Pasquale Poerio (Casabona, 1 ottobre 1921-Catanzaro, 29 novembre 2002), accorso per commemorarla, disse: «Forse o lavoratori, non avrei capito nella sua interezza il sacrificio di Giuditta Levato se non fossi venuto qui, a Calabricata. L’esser venuto qui, l’aver veduto le vostre case basse e affumicate, il vostro villaggio senza strade, i vostri bimbi senza niente sulla carne che li possa riparare dall’inverno, le vostre donne, i vostri uomini coperti solo di cenci, con su le facce i segni del lavoro e della fame, spettacolo terribile di miseria, mi ha fatto capire appieno il sacrificio della vostra compaesana che non appartiene più solo a voi, ma ai contadini di tutta la Calabria, a tutti i lavoratori della terra d’Italia».

 

IL LAVORO CHE NON C’ERA, IL LAVORO CHE NON C’E
I precari di oggi, uno scandalo sociale che tiene in sospeso migliaia di vite, neanche se la ricordano. Nelle scuole italiane e nei testi in uso, del formidabile movimento contadino per la conquista delle terre (1943/1953) dei suoi protagonisti, della violenza del latifondo e degli eccidi non c’è traccia. Solo vagamente, i disoccupati di oggi può darsi abbiano orecchiato qualcosa di Giuditta Levato. O, fermandoci alle donne, di Angelina Mauro, uccisa a Melissa, di Rita Pisano, dirigente comunista e sindaco di Pedace, il cui “splendido volto” fu dipinto da Pablo Picasso a Roma il 30 ottobre del 1949: “La jeune fille de Calabre”. Eppure, anche Giuditta chiedeva di lavorare. Donna, giovane, senza lavoro e calabrese.
Erano tempi in cui soffiava un altro vento. Ma il lavoro, come oggi, è sempre stata una bestia difficile in Calabria e nell’Italia del Sud. Non a caso, la nostra è una Costituzione fondata anzitutto sul lavoro. E’ il lavoro che rende liberi. Cittadini. Uguali. Se non c’è il lavoro, ogni altro diritto perde consistenza, rimane appeso, scarnificato.

 

UNA FUCILATA FU LA RISPOSTA DEL LATIFONDO
Giuditta non se l’aspettava quella fucilata nel ventre. Era andata a rivendicare il lavoro che le volevano negare e l’hanno sparata. Sul lavoro negato si può ricostruire una storia dell’Italia, che forse indurrebbe le classi dirigenti a essere meno disattente. S’erano verificati, a quei tempi, centinaia di soprusi ai danni dei contadini nell’era dei baroni. Ma ancora l’omicidio non era diventato lo strumento per affermare il rispetto della protervia latifondistica e l’intangibilità della proprietà privata.

 

QUANDO COMANDAVANO I BARRACCO, I BERLINGERI, I GALLUCCI…
Mentre Giuditta Levato si chiudeva la porta di casa alle spalle per andare con passo svelto a Calabricata – oggi una frazione di Sellia Marina in provincia di Catanzaro – in Calabria regnavano i Barracco, i Berlingieri, i Gallucci, i Gaetani. Da secoli dettavano legge. E la caccia era lo spasso del debosciato latifondo calabrese. Ogni cosa recava i loro nomi: il segno visivo di un potere assoluto. E comandavano sulla miseria dei contadini calabresi con algido distacco. Non era possibile, per i contadini, neanche avvicinarli. Il colloquio poteva avvenire attraverso intermediari: «È più facile parlare con Dio che col barone Barracco» dice un contadino a Giovanni Russo in un libro-viaggio del 1949 intitolato “Baroni e contadini”. Ma qualcosa stava accadendo il 1946. Intorno alla giovane donna di Calabricata c’era un frastuono eccitato. La terra l’avevano avuta e ora l’agrario Mazza, anche lui convinto come i suoi simili che «la riforma è una rovina, un furto», opponeva resistenza. Il grilletto del fucile fu premuto dalla guardia privata del barone.

 

IL QUADRO DI MIKE ARRUZZA IN CONSIGLIO REGIONALE
C’era la voglia di zittirla con ogni mezzo, nel 1946, quella plebaglia immonda. Dare le terre ai cafoni, che abominevole scempio della proprietà privata. Un lampo e la giovane donna senti il dolore acuto che dalla pancia si diffondeva vorticosamente in ogni fibra.
Quando si legge l’articolo 42 della Costituzione (votata il 22 dicembre 1947) sulla proprietà, ove si riconoscono i suoi limiti «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», non si può fare a meno di riandare col pensiero a quelle giornate di ribellione che infiammarono il Mezzogiorno.
Al sacrificio di quella giovane donna. E dei tanti altri che insanguinarono la terra.
La guerra era finita da poco e il fascismo seppellito. Giuditta aveva 31 anni, era incinta, madre di due figli. Ma non poteva starsene a casa quel giorno.
C’è un quadro di Mike Arruzza, nell’Aula che il Consiglio regionale ha dedicato a questa giovane donna, che la ritrae mentre agita le mani e profferisce parole al vento. Niente l’avrebbe trattenuta. La terra era lì, a portata di mano e di zappa. Quella terra che sognava da una vita, il sogno di intere generazioni di contadini, era stata già assegnata dallo Stato (ministro dell’agricoltura il comunista Fausto Gullo) alla cooperativa di Calabricata.
Ma perché mai quel proprietario s’ostinava a non mollare? Perché aveva portato i buoi a rovinare la semina sui terreni assegnati?

 

IL DECENNIO DI LOTTE CONTADINE (1943/1953)
Certo, aveva dalla sua la forza. La supponenza dei ricchi e il disprezzo per i nullatenenti. Lei aveva fiutato il vento della storia. Occorreva resistere. Insieme ce l’avrebbero fatta. Invece i colpi di fucile furono la risposta secca e bestiale del latifondo calabrese all’orgoglio contadino, che qualche mese prima era tracimato, festante, nelle campagne del Marchesato.
Quel periodo di lotte contadine (1943- 1953) iniziate a Calabricata con un assassinio, cui ne seguirono altri ancora più tragici (l’eccidio di Fragalà a Melissa il 29 ottobre 1949: spara la celere di Scelba e uccide Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito), ebbe un triste epilogo, come scrisse Paolo Cinanni in un memorabile saggio: il fallimento della riforma agraria e l’esodo di massa obbligatorio per milioni di contadini disillusi che finirono nei «ghetti dell’immigrazione».

 

DE GASPERI: «IMPARATE UNA LINGUA ED EMIGRATE»
«Imparate una lingua ed andate all’estero» esortava il presidente del Consiglio dei ministri dell’epoca, Alcide De Gasperi. Il tentativo di Gullo di riformare l’agricoltura meridionale era abortito. Il nuovo ministro dell’agricoltura, il democristiano Antonio Segni, che subentrò a Gullo, agevolò la grande proprietà e attraverso una serie di scelte legislative «e in un clima d’indifferenza premeditata del Governo verso le esigenze dei cafoni del Sud, parti l’offensiva dei proprietari terrieri contro le cooperative contadine».
Molta della terra conquistata nell’inverno del 1946 e del 1947 fu perduta l’anno successivo. Fu recuperata dagli agrari la terra migliore. Nel 1954, l’inchiesta parlamentare sulla miseria nel Meridione mise in luce che l’85 per cento delle famiglie povere si trovava al Sud, con Calabria e Basilicata ai primissimi posti. Il red
dito pro capite, fatta 100 la media nazionale, era di 174 in Piemonte e di 52 in Calabria. L’80 per cento dei comuni calabresi era senza edifici scolastici o aveva scuole sistemate in edifici malsani e pericolanti, l’85 per cento dei comuni non aveva canali di scolo e acquedotti insufficienti. Per ogni 1500 abitanti vi era un solo posto letto negli ospedali. Il 45 per cento della popolazione era analfabeta.

 

IL CANTO DEI NUOVI EMIGRANTI DI FRANCO COSTABILE
Tra il 1949 e il 1955 le speranza di un cambiamento per il movimento contadino erano incentrate sulla riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Ma la prima si sgonfiò immediatamente e la Cassa – commenta Russo in una recente prefazione al suo libro – «dopo aver creato dighe, strade, ponti ed acquedotti, ha investito buona parte dei 100mila miliardi fino alle metà degli anni ’80 nella industrializzazione senza sviluppo».
Dalla conclusione delle lotte contadine prese inizio l’enorme contributo dato dai meridionali in tutto il mondo ed a tutte le nazioni. Lacrime e sangue hanno contrassegnato la loro esistenza. Nelle opere pubbliche più imponenti del mondo hanno speso energie e sudore. Hanno vissuto in tutte le periferie del mondo industrializzato, nelle baracche svizzere e nei cantieri dei grattacieli di New York. Leggete “Il canto dei nuovi emigranti” di Franco Costabile e vi sembrerà d’infilarvi tra le pagine dell’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

 

DRAGHI: «SE IL DIVARIO TRA NORD E SUD NON VIENE COLMATO IL PAESE INTERNO SOFFRE»
Oggi che moltissimi di quei contadini emigrati vantano figli illustri nelle grandi società capitalistiche, assistiamo però al riacutizzarsi della questione meridionale. Al punto che non sarebbe blasfemo affermare l’inutilità del sacrificio di Giuditta Levato, delle vittime dell’eccidio di Melissa, degli undici morti nella strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947. Come allora, l’esigenza di un riequilibrio del rapporto Nord/Sud presenta tratti drammatici. Lo asseriscono con
dovizia di dati la Svimez, l’Istat, Bankitalia, il Censis. Torna attualissima l’affermazione di Mario Draghi che, da Governatore della Banca d’Italia, scandì inascoltato : “Se il divario tra Nord e Sud non viene colmato il Paese intero soffre”.

 

DALLA FAME DEI CONTADINI ALL’URBANESIMO MALATO DELLE CITTÀ DEL SUD
I termini della questione sono naturalmente mutati, ma è evidente che alla fame dei contadini di allora è subentrato “l’urbanesimo malato” delle grandi città del Sud (Napoli, Reggio Calabria, Palermo). «La piaga del Sud coincide – asserisce Rosario Villari – con la disoccupazione giovanile e, insieme, col suo patrimonio di cervelli, costretto a fuggire perché nel Sud, in gran parte di esso, non ci sono prospettive». C’è, inoltre, una pericolosa crisi delle istituzioni cui si accompagna la debolezza della società civile i cui pezzi migliori (comprese le cosiddette “minoranze combattive”) sono minacciati, o tenuti sotto scacco dalla criminalità organizzata.

 

POVERTÀ TECNOLOGICA, CRISI ISTITUZIONALE E MAFIA
Nonostante la tenacia con cui donne impavide come Giuditta Levato hanno provato a mutare il corso della storia, i problemi del Mezzogiorno sono, in buona parte, rimasti senza risposta. E oggi si avverte un’assenza di peso specifico del Mezzogiorno nella vita del Paese. Il Sud conta poco nelle scelte più importanti di politica economica. La crisi della democrazia rappresentativa ha risvolti più acuti proprio nelle aree svantaggiate del Mezzogiorno. Non sono mai stati aggrediti i fattori reali dell’arretratezza di questa parte del Paese, i nodi strutturali, che s’identificano, perlopiù, con la povertà tecnologica e istituzionale e la presenza di una criminalità che costituisce anzitutto un ostacolo per innescare sviluppo nella legalità.

 

GIUDITTA LEVATO SIMBOLO DI RISCATTO SOCIALE
Quel mondo dei contadini del Sud «serrato nel dolore e negli usi, negato alla storia e allo Stato, eternamente paziente», quel mondo immerso «nella sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte», come lo dipinge Cario Levi (quest’anno ricorre il quarantennale della sua morte) nell’ineguagliabile Cristo si è fermato ad Eboli, s’era infine svegliato. S’era messo contro i baroni. Superando paure ed incertezze. Disposto, a dispetto d’ogni previsione, a sconfiggere «lo sconsolato senso d’inferiorità». Si è messo in discussione respingendo ogni fatalismo e dando spazio al protagonismo dei singoli individui.
Questo, in estrema sintesi, il messaggio della contadina di Calabricata che si può cogliere dalla sua personale vicenda divenuta simbolo, di carne e sangue, dei valori introiettati dal movimento contadino: l’attaccamento alla terra, il protagonismo delle donne, il rifiuto di subire l’arroganza del latifondo, il desiderio di giustizia sociale e di un mondo migliore.

 

COME SAREBBE POTUTO ESSERE IL MEZZOGIORNO
Ecco, dunque, che in vista dei cent’anni dalla nascita di quella donna coraggiosa (18 agosto 1915) può essere un’occasione preziosa per approfondire la lettura di quello straordinario decennio di lotte (Sidney Tarrow ha scritto che «le lotte per la terra dei contadini meridionali rappresentano gli avvenimenti più rivoluzionari nella storia italiana di questo dopoguerra») che, con l’irrompere dei contadini nella storia, hanno forgiato la democrazia meridionale.
Un’occasione per analizzare come sarebbe potuto diventare il Mezzogiorno, se le lotte contadine non fossero state tradite e la riforma agraria portata a compimento con un’effettiva redistribuzione delle terre ed una sostanziale messa in discussione della proprietà fondiaria accumulata con ruberie e soprusi.
Un’occasione per riprendere il filo di un discorso spezzato che può mettere intorno ad un tavolo (la Cgil di Catanzaro pensa di coinvolgere Susanna Camusso) studiosi, politici e forze sociali con lo scopo di produrre una nuova strategia che ridia ossigeno ad un Mezzogiorno squassato da decine di emergenze. Per negare che la “questione meridionale”, specie ora che è stato archiviato il federalismo hard e l’Europa dell’austerità è un progetto fallimentare, si rivolve, parafrasando il titolo di un efficace pamphlet di Gianfranco Viesti, abolendo il Mezzogiorno.

 

*Capo ufficio stampa del Consiglio regionale

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