Dopo avere dominato da oltre mezzo secolo la Calabria e avere contribuito in maniera determinante alla sua rovina, la ‘ndrangheta calabrese non si è fermata. Ha colonizzato Lombardia, Piemonte e Liguria, nel giro di trent’anni o poco più, piegandone le (debolissime) resistenze, conquistando spazi sempre maggiori nell’economia imprenditoriale e commerciale, forte delle risorse finanziarie accumulate con il traffico di droga ed una serie di altri reati.
Lungo il suo percorso cadono, come birilli, altre regioni come Lazio e Umbria e, ultima, non certo per importanza, l’Emilia-Romagna. Cadono pure le analisi sociologiche che avevano dominato la saggistica in materia, che attribuivano ai governi corrotti delle regioni meridionali e poi a quelli della destra berlusconiana, la responsabilità del connubio con le organizzazioni mafiose in cambio di voti. Anche le regioni dell’Italia centrale, note per il buon governo assicurato dal dominio dei partiti di sinistra, si sono dimostrate giganti con i piedi d’argilla e poco o nulla hanno saputo opporre alla irresistibile ascesa delle cosche calabresi.
A nulla sono valse i ricordi della lotta partigiana, una cultura politica improntata al rigore ed alla correttezza amministrativa, la tradizione contadina, presidio di saldi valori di onestà e tutela del bene comune.
La ‘ndrangheta non è ancora arrivata al termine del suo percorso e presto in altre regioni, verranno alla luce consistenti presenze mafiose. E questo anche laddove, come in Umbria, non vi è stato un processo di immigrazione tale da consentire la colonizzazione che si è avuta nel triangolo industriale del Nord-Ovest. Segno che la ‘ndrangheta non ha necessità di utilizzare massicci insediamenti territoriali, adesso è in grado di “delocalizzare” le proprie attività, come ha acutamente osservato Roberto Pennisi sull’ultimo numero di questo periodico. In Emilia, molto meno in Romagna, vi sono insediamenti stabili solo nelle province di Reggio Emilia e Parma, molto meno in quelle di Ferrara e Ravenna, ma questo non ha impedito alle cosche di fiutare il profumo degli affari che si levava dalle macerie del terremoto e di entrare nel cuore dei lavori della ricostruzione. Ricordo che già dalla metà degli anni 90 lo storico Enzo Ciconte aveva studiato e documentato le presenze mafiose in quella regione e dunque non si può parlare di sorpresa e sgomento, come amano ripetere le «anime candide» della politica locale, quelle alle quali sono affidate responsabilità di governo, che hanno necessità di alibi inaccettabili per giustificare la dolosa omissione di ogni intervento preventivo.
Si ripete insomma il solito copione: imprenditori e amministratori locali, per incrementare i profitti i primi e per necessità elettorali i secondi, chiudono gli occhi dinanzi alle allettanti offerte di profitti e di voti che vengono elargiti da personaggi con la valigetta dei soldi in una mano e l’esplosivo nell’altra.
La consueta richiesta di mafia di cui questo Paese non può fare a meno, tanto è entrata nella struttura economica e politica del paese, proviene dall’interno delle imprese locali e ne determina la rovina. Le operazioni giudiziarie sono le uniche a porre in evidenza situazioni ben note da anni e, non fosse che per questo, sono meritorie. Non si può tacere, tuttavia, che gli apparati investigativi e magistratura requirente hanno troppo spesso limitato la propria attenzione a vicende prettamente criminali, come guerre di mafia, omicidi, traffico di droga, estorsioni, ma meno spesso hanno tentato di ricostruire la struttura associativa sottostante, i nessi con i poteri locali, le fonti di finanziamento e le pratiche di riciclaggio.
Oggi non è più così, per fortuna, ma il punto è capire quanto il processo di penetrazione sia divenuto o meno irreversibile. È comune la valutazione che l’attività repressiva poliziesca e giudiziaria non è sufficiente, da sola, a chiudere una partita che, invece di divenire più agevole con il passare del tempo, diviene sempre più impari per la preponderanza del potere conquistato dalla controparte mafiosa e la moltiplicazione dei luoghi e dei settori nei quali è necessario intervenire. L’uso del termine “mafia nazionale” come titolo del presente intervento, intende dare della ‘ndrangheta, l’idea concreta di un fenomeno che, da regionale e arretrato, è passato a fenomeno onnipresente nella geografia del Paese.
Sembra quasi avverarsi il motto ‘ndranghetista, secondo cui «il mondo si divide tra la Calabria e ciò che lo sarà», triste presagio dell’occupazione mafiosa del Paese. Né Cosa nostra, né camorra hanno mai manifestato la loro presenza e la loro attività criminale in larga parte del Paese, c’è riuscita la ‘ndrangheta, per meriti propri certo, ma per clamorosi demeriti altrui.
Se è questa la situazione, e sarebbe ora che di questo si occupassero i nostri governanti e i loro corifei della stampa, invece di propinarci le insopportabili chiacchiere della distrazione di massa, occorre calibrare attentamente rimedi e riforme, piuttosto che applicare soluzioni apparenti, che al più possono essere utili, ma non valgono certamente a modificare l’attuale stato delle cose. Si leggono proposte che, a prescindere dalla dubbia possibilità che possano essere tradotte in leggi, non vanno nella direzione di un decisivo cambio di passo nella strategia dell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Si tratta di misure di portata “tattica”, utili a snellire i tempi dei processi, facilitare le indagini, aggravare le pene per determinati reati. Non cambia il rapporto con l’avversario, si punta ancora ad aggredire i beni frutto delle attività criminali una volta acquisiti, invece che di tentare di inaridire, dico meglio azzerare, le fonti degli arricchimenti illeciti.
Sotto il profilo processuale, oltre alla radicale riforma della prescrizione, valida per “tutti i reati”, che non mi stancherò mai di indicare come la riforma delle riforme, bisognerebbe porre mano al nostro processo penale, per adeguarci agli standard europei in ordine a garanzie per l’imputato, impugnazioni, effettività della pena. Pensare di sconfiggere un fenomeno mafioso, ma lo stesso potrebbe dirsi per il rinascente pericolo terroristico, affrettando l’informatizzazione del processo o prevedendo notifiche per posta certificata, è solo un modo per rinviare, di poco, il nodo centrale, non ulteriormente eludibile, sulla sorte della nostra società e della nostra democrazia, messe in gravissimo pericolo da organizzazioni criminali irriducibili e aggressive.
Torna in mente l’affermazione, cruda quanto si vuole, ma non distante dalla realtà storica del nostro Paese, che Saverio Lodato ha pronunciato in occasione del ricordo di Giovanni Falcone il 22 maggio del 2014: «La favoletta della mafia contrapposta allo Stato (e viceversa), che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa, andrebbe sostituita da ben altra narrazione: sono sempre esistiti in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato: E mai come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche».
Negli ultimi giorni, il presidente della Repubblica Mattarella e il governatore della Banca d’Italia, Visco, hanno solennemente richiamato l’attenzione del Paese sul pericolo rappresentato da mafia e corruzione. Parlamento e governo dovrebbero urgentemente dare una risposta convincente, rigorosa e concorde. Lo speriamo tutti, ma sia consentito dubitarne. L’ottimismo, si sa, nasce da un difetto di informazione.
*Magistrato
*Magistrato
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