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Siciliani de Cumis: «Ecco perché la carta stampata non morirà»

A colloquio con il docente di Pedagogia generale alla “Sapienza”, Nicola Siciliani de Cumis. Che, da un quarto di secolo, ogni giorno, rassegna venticinque testate giornalistiche. Internet vampiriz…

Pubblicato il: 23/02/2015 – 10:16
Siciliani de Cumis: «Ecco perché la carta stampata non morirà»

A colloquio con il docente di Pedagogia generale alla “Sapienza”, Nicola Siciliani de Cumis. Che, da un quarto di secolo, ogni giorno, rassegna venticinque testate giornalistiche. Internet vampirizzerà la carta stampata? L’informazione “usa e getta” vanificherà l’approfondimento, la quintessenza di libri e mezzi d’informazione stampati? Interrogativi che suggestionano il dibattito pubblico. E vedono, da un lato, i ‘profeti’ della Rete, per i quali gli argini al predominio dell’immagine, dei social network e dell’informazione scissa dal supporto cartaceo, sono saltati. E, dall’altro, chi non crede all’epilogo della civiltà della scrittura su carta.

UMBERTO ECO CONTRO I PROFETI DELLA RETE
Umberto Eco è tra quest’ultimi; tra l’altro, segnala l’importanza fondamentale del libro per il trasporto e la conservazione dell’informazione: “Abbiamo la prova scientifica che sono sopravvissuti libri stampati cinquecento anni fa, mentre non abbiamo prove scientifiche per sostenere che i supporti magnetici attualmente in uso possano sopravvivere più di dieci anni”. Ma cosa sono esattamente un quotidiano, un libro, il “sapere” scritto? Perché, in breve, sono così preziosi?

L’ARCHIVIO-LABORATORIO DI SICILIANI DE CUMIS
Siciliani de Cumis di carta stampata se ne intende. Coltiva da oltre trent’anni uno sterminato Archivio-Laboratorio con l’occhio dell’emerografo, dello storico e dell’educatore. Settant’anni, nato a Catanzaro, Siciliani de Cumis dei giornali sa vita e miracoli. Il suo è un Archivio-Laboratorio sui generis, che tiene insieme «e risolve ad un livello più alto i materiali che lo impreziosiscono (dalle lettere inedite di Calvino alle centinaia di tesi universitarie alle “terze pagine” dei quotidiani e periodici), per svolgere un’attività di documentazione e di formazione». In media, il docente della “Sapienza”, specialista della filosofia marxista di Labriola ed appassionato di Makarenko (il fondatore della pedagogia sovietica ai tempi di Stalin) passa in rassegna tra le venti e le venticinque testate al giorno, «tenendo però conto del fatto – spiega – che il lunedì i quotidiani in uscita sono assai di meno e che, in presenza di certi avvenimenti (la morte di una personalità per me significativa, un nuovo Papa, un atto di guerra, un primato, le recensioni ad un film), può accadere che io ne passi in rassegna anche di più. Servendomi di più edicole e di quelle fornite di giornali stranieri…».

Può fare qualche esempio?
«Quando morì Jean Piaget (1981) mi trovavo a Catanzaro e non c’era Internet. Così feci un viaggio apposta a Roma, per raccogliere dai diversi distributori italiani e stranieri un bel mucchio di giornali, perché avevo deciso di scrivere un articolo in forma di rassegna-stampa. Lo stesso mi è accaduto più volte per i film di Gianni Amelio: ricordo le sudate da un capo all’altro di Roma. D’estate poi, devo essere previdente, soprattutto perché a Roma, nella zona dove abito, le edicole aperte d’agosto sono poche e mi tocca prenotare L’Osservatore Romano in un’edicola, il Corriere della Sera o la Repubblica con la cronaca dell’estate romana in un’altra. In Calabria (dove vado in vacanza), la presenza di più o meno testate di quotidiani e riviste dipende dalla regolarità dei rifornimenti, dagli smistamenti da un’edicola all’altra di uno stesso gestore del servizio in più posti, dal numero dei forestieri di Milano o di Napoli».

Le notizie ed i commenti rassegnati vengono catalogati a parte nell’Archivio-Laboratorio rispetto agli altri materiali?
«È impossibile separare il “bene culturale” rappresentato dallo strumento-giornale, dal “bene culturale” che si condensa nelle risorse umane coinvolte. L’archiviazione e la fruizione dei giornali e delle altre “Carte di famiglia” (è un progetto della “Sapienza” www.archividifamiglia.it) di cui è costituito l’archivio-laboratorio sono momenti inscindibili di un’unica proposta che ha una sua organicità. Non si è mai trattato di un semplice raccolta, soggettivamente selezionata di testate giornalistiche, di documenti e di dossier formativi prodotti nel corso di diversi decenni. Si tratta di uno strumento di ricerca e di un servizio didattico con obiettivi suoi propri. E non solo: l’archivio-laboratorio intanto svolge un compito istituzionale, in quanto non soltanto utilizza per il suo pubblico di studenti, docenti, specialisti e persone di media cultura, libri, manoscritti, dattiloscritti, fotocopie, ma anche e soprattutto perché produce documentazioni emerografiche e pedagogiche, finalizzate alla conoscenza di aspetti poco noti della realtà scolastica, universitaria e sociale; e ne divulga i contenuti sia nella Rete sia a stampa, mediante i canali editoriali tradizionali, ovvero servendosi della tecnologia del print on demand di cui gli studenti si servono per i loro elaborati di esame e per le loro tesi di laurea».
Che relazione c’è fra l’Archivio ed il Laboratorio?
«È una sorta di rodariano “binomio accendistorie” e, dunque, il luogo della genesi di una produttività critica largamente condivisa e diffusa. Una miscela doppiamente formativa di risorse filologiche e di capacità intellettuali indotte, che da un lato funziona formativamente, creativamente, sul piano della ricezione, della memorizzazione e della costruzione del bene culturale individuale e sociale; da un altro lato, attiva e soddisfa le esigenze educative e autoeducative personali e di gruppo, fatte proprio dall’archivio-laboratorio e dai suoi committenti e destinatari. In altri termini, la dimensione archivistica si fa essa stessa “laboratorio” e il laboratorio diventa la modalità attuativa propria e nuova dell’archivio».
Può esplicitare meglio il concetto?
«Pensi, per esempio, alle rubriche delle lettere al direttore, come luogo formativo di confine tra la linea culturale e politica dei quotidiani e i feed back offerti ai giornali da parte dei lettori: cosa documentano su scuola e università, sui rapporti intergenerazionali, sull’insegnamento della storia? Quali e quanti i momenti documentativi e formativi che siffatte raccolte di lettere potrebbero mettere in moto? Le vignette dei maggiori vignettisti italiani degli ultimi trent’anni si sono mai occupate di filosofia? Mettendo assieme un migliaio di vignette concernenti i filosofi di tutti i tempi e luoghi, si può comporre una sorta di storia della filosofia umoristica per immagini? Può servire un documento del genere per mettere in moto meccanismi di crescita della capacità critica? Sarebbe un delitto di lesa maestà pedagogica, se i docenti e gli studenti di una qualche scuola del Paese si mettessero al lavoro per regalare al mondo quella documentazione giornalistica, storico e filosofica che non c’è?».
Torniamo alla carta stampata. C’è chi sostiene che per il giornale il tempo sia definitivamente scaduto…
«Si sbaglia profondamente. E ne sono convinto non soltanto perché i big della Silicon Valley stanno dimostrando molto interesse per l’informazione di qualità prodotta dalla carta stampata».
Ma qual è il “senso”, la ragione intrinseca per cui è importante il quotidiano o l’informazione periodica scritta nel tempo di Internet?
«Il tema è solleticante. Lo è nella chiave autobiografico-autoeducativa e giornalistico-formativa del ménage à trois: “stampa cartacea-web-emeroteca”. Lo è perché, per l’appunto, i giornali, più di qualsiasi mass medium, svolgono il ruolo di una maieutica straordinaria, sia nelle ricerche sia nelle didattiche degli operatori culturali e sociali. Una maieutica collettiva, documentabile e fruibile criticamente all’infinito per l’ipotetica crescita del potenziale critico delle persone, di quante più persone sia possibile. I miei studi, le mie esperienze di professore universitario, la mia stessa vita privata (sogni e incubi compresi), sono quotidianamente attraversati da giornali, rotocalchi, riviste, pubblicazioni in audio e in vid
eo che arrivano variamente in edicola. E, nel bene e nel male, se ne alimentano per una scelta razionale operata tanto tempo fa, diciamo fin degli anni Sessanta. Per quanto mi riguarda, proprio i giornali mattutini e le conseguenti pratiche di archiviazione svolgono un ruolo essenziale, che direi costitutivo e costituzionale. Una professione di fede e una scelta tecnica precisa di natura etica e politica. Che per me vuol dire didattica e scientifica, universitaria, con al centro i giornali».
Cosa rappresenta, dunque, il quotidiano che acquista in edicola?
«Penso alla famosa pipa di René Magritte: “Ceci n’est pas une pipe”. Ebbene il quotidiano non è per me, semplicemente, il quotidiano, quell’oggetto del desiderio mattutino che si acquista in edicola o si consulta in Rete, si legge come si può durante il giorno, si memorizza senza troppo impegno e poi si dimentica. A me, il quotidiano si presenta invece come quotidianità, come dimensione autobiografico-educativa e storiografico-formativa della realtà odierna, giorno dopo giorno. Ma – è questo il punto – come elementare documento del giorno prima, non volatile (come il web), ma relativamente stabile e controllabile (come la carta stampata). Quasi una sorta di promemoria individuale e diario collettivo, di massa. Un mass medium tra gli altri mass media, come configurazione e comunicazione micro-storiografica di un ‘oggi’, di un “adesso”, di un subito, che si impongono come immediatezza, urgenza, subitaneità; e, al tempo stesso, come memorizzazione non effimera della realtà storico-culturale nel suo farsi. In proposito, mi ritorna in mente quel che mi raccontava una volta Cesare Zavattini, a proposito di un’esperienza da lui vissuta a Città del Messico, in un enorme stadio. Lasciato solo di fronte a tantissima gente da dovere intrattenere sui temi del neorealismo e del suo cinema in specie, tra le strade possibili ne imboccò una, che si rivelò straordinaria per tenuta dell’attenzione e coinvolgimento del pubblico. Spalancò un giornale, il primo che gli venne a tiro, e non fece altro che leggere e commentare alcune notizie sulla base dei soli titoli, occhielli e sommari. Sorprendendo i suoi fan e sorprendendosi egli stesso per la completezza del risultato. Davvero straordinario: perché la realtà, con lo schermo del giornale e per bocca di Zavattini, nella sua immediatezza, risultò a tutti stupenda, di gran lunga superiore a qualsiasi altra performance. Penso, ancora, alle innumerevoli indagini condotte da me e dai miei studenti, per lunghi anni, sui temi più diversi, a partire dalla stampa quotidiana. O a me ragazzino, che (un po’ come il Nanni Moretti che in un suo film si avvolge in un grande lenzuolo fatto di giornali), con i giornali ci giocavo in tutti i modi possibili: ritagliando, incollando, costruendo un’infinità di cose, fantasticando. Ancora bambino, aspettavo con impazienza il rientro a casa di mio padre, per sottrargli almeno uno dei due o tre giornali che soleva recare con sé.Da qui alle prime esperienze del leggere in proprio Lo Scolaro, Il Corriere dei piccoli, Il monello, quindi L’intrepido, il passo non fu lungo. D’altra parte, come studioso di determinati argomenti, i miei risultati migliori li devo probabilmente ancora e sempre ai giornali: tante infatti, a partire dal mio primo libro, le composizioni monografiche o antologiche costruite su fonti prevalentemente giornalistiche. Incalcolabili le volte che per fare lezione o, più semplicemente, per dire la mia in pubblico, io non sia ricorso, oltre che ai libri e ai materiali d’archivio, ai giornali»”.
È vero, però, che spesso nei quotidiani si riflettono punti di vista molto specifici. Tutto ciò, può in qualche modo confondere il lettore, piuttosto che aiutarlo a capire lo svolgimento degli eventi…
«Il quotidiano, in fondo, non è altro che una sorta di specchio realistico e al tempo stesso alterato del mondo, necessariamente e legittimamente unilaterale. Guai se non fosse così, se il giornale non avesse il suo punto di vista. Guai se un giornale pretendesse di essere portavoce di una qualsiasi esclusiva verità. Sarebbe pericolosamente strumentale a un “pensiero unico”, a un fondamentalismo culturale virtualmente autoritario e foriero di decurtazioni della libertà di stampa. Sul piano dell’informazione, io considererei il quotidiano, invece, come la prima espressione trasparente, pubblica, di un punto di osservazione particolare ma sociale; e il primo documento storico di una storiografia elementare, di massa, una sorta di zoomata per così dire in presa diretta sulla realtà e i suoi problemi. Vedrei il giornale come il luogo naturale (cioè culturale) di determinate, responsabili assunzioni di dati utili ad elaborare la cronaca che aspira a farsi storia. A fare delle scelte politiche più giuste. Il giornale come enorme deposito di cultura sociale e individuale in fieri. Il giornale come scuola e università, anzitutto di giornalismo (ma anche di ben altro). Il giornale come coscienza buona della cattiva coscienza di certi politici, intellettuali, ideologi, e come cattiva coscienza della buona coscienza di certi altri. Il giornale “porco”, del quale non si butta niente. Il giornale-Napoleone, riflesso spirituale del mondo, a cavallo delle notizie che decidono della sua sorte. Il giornale come ‘dover essere’ del ‘poter essere’ della storia. Il giornale come grande educatore del senso comune e officina del buon senso. Il giornale come ‘voce’ dei suoi lettori e sede adulta delle espressioni più genuine dell’infanzia. Indimenticabili, quelle intere pagine del Secolo XIX, di Paese sera, di Il Tempo, della Gazzetta del Sud, di L’Ora, di Il Giornale di Sicilia, di La Stampa ecc. lavorate assieme, nelle scuole e per le scuole, dai giornalisti di professione e dagli insegnanti e studenti di ogni tipo di scuola e, talvolta, dell’università. Parola d’ordine: i giornalisti a scuola, la scuola dal giornale. Col risultato che gli stessi studenti e insegnanti finivano con il produrre i loro bravi giornalini in classe e, di conseguenza, magnifici risultati formativi ed educativi”».
Eppure, qualcosa non va. C’è un’oggettiva crisi della stampa cartacea. Si registrano crolli di lettura. Non pensa che si stia eclissando un certo modo di fare informazione e che dobbiamo rassegnarci al linguaggio della Rete?
«La crisi della carta stampata, le percentuali dei crolli della lettura e degli incassi, sia pubblicitari sia di vendite, sono il frutto di una crisi, più ampia e pervasiva, della cultura italiana nel suo complesso. Con buona pace, s’intende, delle eccezioni. Non è che, con il Novecento sia finito un modo di fare informazione: è che, in questi ultimi quindici anni, è cominciata una nuova era, che dispone di strumenti di eccezionale portata comunicativa, ma è estremamente incerta sugli scopi della comunicazione. La crisi che viviamo sulla nostra pelle, chi fa il giornale e chi lo legge, è di tipo soprattutto culturale e ideale, e poi anche di natura economico-strutturale e, dunque, ideologico-sovrastrutturale. Se il linguaggio sincopato e rapido della Rete prende corpo, ciò avviene in quanto sono le ragioni stesse del dire e del cosa dire a non riconoscersi nelle ragioni necessarie e nei motivi sufficienti per aprire bocca. Se le dimensioni del parlarsi superficialmente e in tutta fretta, sembrano avere preso il sopravvento, con la conseguenza dell’imbarbarimento della lingua, della frantumazione e dello sgangheramento delle parole e, prima, dei concetti, ciò sembra soprattutto dipendere da uno svuotamento del pensiero e da una immenso vuoto di valori. Tutto un mondo di certezze è crollato. Nessun altro mondo di nuove ipotesi si è ancora affacciato all’orizzonte. Il problema è, però, che questo inedito mondo bisogna ancora scriverlo».
Non solo colpa del web, par di capire, se la credibilità dei quotidiani decresce e i cittadini evitano la carta stampata?
«Non serve criminalizzare il web, se l’idea stessa di crimine è implosa. Se non capiamo da che parte stiano e il bene e il
male, nessuno è innocente. Ci basti pensare alle grandi tragedie della guerra, della povertà, dell’immigrazione planetaria, dell’illegalità e dell’ingiustizia spesso trionfante, della corruzione, della disoccupazione, delle nuove schiavitù, dell’abbandono dei bambini e delle persone anziane, della leggerezza nei rapporti tra le generazioni e in quelli interindividuali. Se qualcuno dice “io non c’entro”, i conti non tornano. Una cosa è la responsabilità giuridica di un eventuale crimine, un’altra cosa è la responsabilità e la corresponsabilità culturale e morale e politica di quel ci viene accadendo. Lo ammetto: c’è una sproporzione grande, enorme, tra ciò che, nel mio mestiere di professore universitario, e ciò che riesco a fare e dovrei riuscire a fare. Lo stesso, se non erro, vale per i giornali: mi pare rispecchino troppo l’esistente; ho l’impressione che inseguano troppo l’audience. Il cane si morde la coda: tra i lettori in crisi di identità e i giornali in perdita di lettori tende a non esserci soluzione di continuità. Le volgarità culturali trionfanti e alimentate dalla televisione e dal web trovano il loro organico prolungamento nella impressionante dismissione delle edicole: ma anche della chiusura delle sale cinematografiche, dei circoli culturali, delle “scuole parallele”, delle testate giornalistiche. A che serve leggere l’altro da noi, il giornale, se è proprio l’altro da noi, lo stesso giornale, a produrre non-lettori? Perché i giornali, che rispecchiano spesso e volentieri l’esistente e le sue dialettiche (uno dei doveri del giornalismo è questo), dovrebbero avere il placet di lettori in crisi di identità, facili preda invece delle volgarità culturali trionfanti, di un’audience televisiva organica allo sfascio e, dunque, dell’egemonia dell’immagine superficiale e vuota della sostanza umana che vorremmo. Perché la lettura del giornale, dei libri, se è la realtà del mondo, ad escluderne la necessità? A che serve leggere speranzosi il giornale “altro da noi” per esserne educati , se è lo stesso “altro da noi”, il giornale, a volerci tutto sommato lettori passivi, proni a standard culturali vacui».
Cosa perde la società con il soccombere della carta stampata rispetto al web?
«A mio avviso, non si tratta di mettere più di tanto in alternativa carta stampata e web, né di subirne i contrasti alla luce dei pur innegabili colpi di scure del mercato. Si tratta, invece, di non perdere la fiducia nel potenziale della carta stampata (che bene o male ha alcune centinaia di anni di storia, mentre del web, ora come ora, è impossibile prevedere gli sviluppi): e incoraggiare fermamente, in ogni modo possibile, la coesistenza di entrambe le modalità di comunicazione e di produzione culturale. Lo stesso diritto d’autore sta vivendo una crisi di identità senza precedenti. La legge c’è, ma rispetto alla concretezza delle situazioni si rivela astratta, pressoché impossibile da applicare, se vogliono difendere insieme proprietà intellettuale ed editoriale e crescita quantitativa e qualitativa del sapere di massa. La cultura “bene comune” e le “buone pratiche” della produzione, trasmissione e divulgazione secondo un’ottica meritocratica e al tempo stesso democraticamente aperta allo sviluppo di un sapere critico di massa, lascia il tempo che trova nei governi, nelle scuole, nell’università, nella società civile, nei mass media. Ad armi impari coesistono, da un lato, il ‘terribile diritto’: quello di proprietà privata, appannaggio materiale e ideale della cultura di èlite compresa; e, da un altro lato, il ‘diritto di avere diritti’: quello di tutti i cittadini che, rimossi gli ostacoli di natura sociale, siano messi in grado di partecipare di fatto alle buone pratiche dell’elaborazione critica della realtà. Elaborazione critica che comincia non dai cinque sensi di cui normalmente siamo dotati, ma da quel sesto senso che è il senso della prospettiva. Ci basterebbe sapere che la prospettiva, come sguardo lungimirante di ciascuno sul mondo, può essere la ‘gioia del domani’ di tutti. In questo senso la prospettiva, senza inganni e mistificazioni, è una vera e propria tecnologia educativa. Una tecnologia immateriale che, se qualcuno le scrive una breve mail, risponde con un tomo voluminoso come la Bibbia».

 

*Capo ufficio stampa del Consiglio regionale

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