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La "mafia borghese" di Reggio

REGGIO CALABRIA Lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria è la cartina tornasole del ruolo specifico che negli anni la ‘ndrangheta ha assegnato alle ‘ndrine del mandamento Centro: la capacità d…

Pubblicato il: 24/02/2015 – 20:19
La "mafia borghese" di Reggio

REGGIO CALABRIA Lo scioglimento del Comune di Reggio Calabria è la cartina tornasole del ruolo specifico che negli anni la ‘ndrangheta ha assegnato alle ‘ndrine del mandamento Centro: la capacità di rapportarsi e condizionare politica e istituzioni, non solo a livello locale, ma anche nazionale e internazionale. Non usano mezzi termini i magistrati della Direzione nazionale antimafia nel definire il significato di un fallimento della democrazia che non ha precedenti nella storia della Repubblica.

 

LA MAFIA BORGHESE
«Numerosi infatti sono stati i casi di scioglimenti di amministrazioni medio-piccole, dove le esili strutture burocratiche e politiche sono facile preda delle mafie. Ma mai, neanche nella Palermo degli anni ruggenti di Cosa nostra, si era verificato che una città capoluogo di provincia che complessivamente conta più di mille dipendenti, dovesse essere sciolta per condizionamento mafioso». È successo a Reggio nell’ottobre 2012, ma al di là del dato di cronaca – sottolinea la Dna – il collasso delle istituzioni comunali non fa che svelare la natura più intima e segreta delle ‘ndrine reggine, che i magistrati nazionali antimafia sintetizzano nell’espressione di «mafia borghese». Un ruolo che i clan di Reggio hanno conquistato per specifiche ragioni storiche, economiche e sociali, ma che si inserisce in un quadro più complessivo della progressiva specializzazione delle funzioni dei tre mandamenti.

 

LA SPECIALIZZAZIONE
«Come in un corpo in cui ciascun organo assolve a una diversa funzione, ognuna teleologicamente finalizzata al benessere dell’intero organismo e sinergicamente collegata a una funzione complementare, così la ‘ndrangheta ha specializzato le sue diverse componenti in modo che ciascuna possa svolgere diverse ma complementari funzioni che, nel loro insieme, accrescono il potere e la forza dell’associazione». Pur senza elidere in alcun modo le attività “tradizionali” delle ‘ndrine sui territori di competenza, se ai clan del mandamento jonico è stato negli anni affidata la gestione del traffico internazionale di stupefacenti e a quelle della tirrenica la gestione “totalizzante” del Porto di Gioia Tauro e della attività ad esso connesse, alle famiglie di Reggio è stato delegato un ruolo fondamentale, «funzionale all’interesse di tutto l’organismo ‘ndranghetista: quello di curare per conto e nell’interesse dell’intera organizzazione i rapporti con la politica e le istituzioni, a un livello più elevato».

 

LA TESTA DELLE ‘NDRINE
In sintesi, per i magistrati della Dna, «se, quindi, immaginiamo la ‘ndrangheta come un organismo interconnesso, unitario e vivo, quale il corpo umano, di cui il mandamento Ionico e quello Tirrenico sono cuore e membra, la testa non può che essere nel mandamento del Centro». Una testa in grado – si legge nella relazione – di «mantenere le connessioni, ad un tempo più profonde ed elevate, con entità esterne e zona grigia, da cui dipendono le strategie di fondo dell’intero organismo». Questo non significa che al singolo clan sia precluso il rapporto collusivo con la politica che «è caratteristica di tutta la ‘ndrangheta, o meglio, di tutta la criminalità mafiosa, che è tale proprio perché condiziona la politica», ma il compito assegnato alle famiglie reggine non si limita al condizionamento del singolo politico o della singola amministrazione.
«Ciò a cui ci riferiamo – ci tengono a specificare i magistrati della Dna – è il collegamento con un ambito più elevato, che supera il rapporto con l’assessore e il sindaco di un certo comune e si proietta in ambito regionale, nazionale e, talora internazionale che, inoltre, non si limita al rapporto con la sola politica ma, più complessivamente, si estende al mondo delle Istituzioni, quindi ai rapporti con gli apparati investigativi, la burocrazia ministeriale, la magistratura».

 

‘NDRANGHETISTI BORGHESI
Quasi un’attività di lobbying segreta e letale, in cui le famiglie di Reggio si sono specializzate nel corso del tempo, e che spesso le ha viste agire in sinergia con alcune famiglie dell’élite della ‘ndrangheta della Piana come i Piromalli, i Molè o i Pesce. Ma si è trattato solo di occasioni rare e in larga parte risalenti nel tempo, perché alla base della presenza della Testa della ‘ndrangheta a Reggio ci sono ragioni molto precise e puntuali. Primo: è stata la stessa composizione sociale dei vertici della ‘ndrangheta di Reggio città ad agevolare il ruolo di mediazione delle cosche cittadine con gli indicati livelli politici e istituzionali. «La ‘ndrangheta di Reggio città, infatti – spiegano dalla Dna – per due distinte ragioni fra loro connesse, risulta avere un profilo decisamente più borghese rispetto a quello della ‘ndrangheta ionica e di quella tirrenica (anche se qui le distanze sono meno rilevanti). Ed è ovvio che una simile composizione sociale favorisca l’osmosi con il ceto dirigente e, quindi, con la politica e le Istituzioni».

 

IL BENESTARE DELLA CLASSE DIRIGENTE
Da decenni presenti in ambito cittadino e non rurale, gli ‘ndranghetisti di Reggio, «grazie anche alle risorse economiche» sono diventati borghesi fra i borghesi, «mimetizzandosi, così, in ambienti diversi da quelli di origine». Basti pensare – sottolineano dalla Procura antimafia – che già oltre 25 anni fa, durante la seconda guerra di mafia, Ludovico Ligato – in ordine di tempo assessore regionale, deputato nazionale democristiano e presidente delle Ferrovie dello Stato – veniva ucciso per ordine del cartello stretto attorno al clan Condello perché ritenuto collegato e intraneo alle (allora) contrapposte famiglie di Reggio città De Stefano-Tegano-Libri. Ma i clan di Reggio – sottolineano i magistrati della Dna – sono «mafia borghese» anche perché hanno avuto la capacità di «attrarre al loro interno, proprio nel nuovo contesto sociale in cui si era insediata – quello delle professioni e delle imprese – molti appartenenti al ceto dirigente cittadino».

 

OSMOSI
Ragioni di ordine sociale che però non bastano a spiegare il ruolo che nel tempo le famiglie di Reggio si sono ritagliate e mai hanno ceduto. A giocare un ruolo rilevante «nella capacità della ‘ndrangheta reggina di gestire i collegamenti in questione, i cosiddetti rapporti massonici, nei quali si sono miscelate e rafforzate reciprocamente, in un grumo inestricabile di rapporti, le istanze ‘ndranghetiste e quelle dei ceti alti della città di Reggio Calabria». È stata la massoneria a fare da alveo e culla a progetti di grandezza, affari e potere che nel tempo ndrangheta e borghesia cittadina hanno portato avanti insieme a partire da Reggio città. Lo dicono – ricorda la Dna – collaboratori di giustizia, informative, intercettazioni, testimoni, che dallo storico processo Olimpia a oggi ripetono: i rapporti massonici per la ‘ndrangheta non sono che «un ulteriore strumento per stringere direttamente, o indirettamente, relazioni con gli ambiti più alti di cui si è detto ovvero per raggiungere (grazie a tali rapporti) i predetti ambiti».

 

I MOTI E LA DESTRA
Ma un ruolo fondamentale nel determinare la specificità della Testa della ‘ndrangheta, lo hanno avuto soprattutto ragioni storiche che risalgono, «prima, ai cosiddetti moti di Reggio Calabria del “Boia chi molla” in cui – ci tengono a sottolineare i magistrati della Dna – «la ‘ndrangheta cittadina (in particolare la famiglia De Stefano) ha avuto – al fianco della politica – un ruolo preminente», quindi alle «connessioni con destra eversiva ed apparati statali deviati che trovarono la loro massima espressione nella vicenda della gestione della latitanza del terrorista nero Franco Freda, iniziata nell’ottobre del 1978 e conclusasi in Costarica l’anno seguente». Accadimenti storici indagati e sviscerati in procedimenti come O
limpia, che spiegano quale sia stata la genesi dei rapporti dell’élite delle famiglie reggine con i poteri ombra della Repubblica, ma che trovano conferma – afferma la Dna – anche in accadimenti più recenti, a partire dallo scioglimento del Comune di Reggio.

 

«CONTIGUITÁ NELLA CONTIGUITÁ
Un “unicum” che per i magistrati della Dna ha svelato un quadro sconcertante «della capacità di condizionamento della ‘ndrangheta cittadina nei confronti del Comune di Reggio Calabria». Una permeabilità alle pressioni ‘ndranghetiste che «era caratteristica, non solo, della amministrazione eletta appena nel maggio 2011, ma, anche della precedente essendo la seconda caratterizzata, non solo, da continuità politica, ma, anche, personale. Da anni, si era determinato nell’amministrazione reggina, una tendenza che aveva portato l’ente, nel migliore delle ipotesi, a farsi condizionare dalle pressioni mafiose, e, nella peggiore, a colludere direttamente con il crimine organizzato».

 

SOGGEZIONE MAFIOSA
Ma a testimoniare il grado di infezione per la Dna era anche l’uso «esorbitante della trattativa privata e del cottimo fiduciario per l’assegnazione di lavori relativi ad opere pubbliche», senza contare che «in circa la metà dei casi», l’attribuzione di appalti e servizi è finita a società e ditte che presentavano collegamenti diretti ed indiretti con la criminalità organizzata. «Altre inerzie amministrative – si legge nella relazione – contenevano in sè il germe della completa soggezione alle istanze mafiose e si trattava di casi ancora più gravi perché, ancora più visibili all’esterno, e, quindi, ancora più in grado di proiettare sull’intera cittadinanza l’immagine di una amministrazione in balia delle cosche. In particolare, si fa riferimento alle modalità di gestione dei beni confiscati alla mafia; la reale confisca di questi beni dimostrerebbe infatti in modo visibile, all’intera cittadinanza, che quanto la ‘ndrangheta aveva acquisito con la forza della violenza, tornava alla collettività. Ma così non è avvenuto».

 

LA VICENDA MATACENA
Ma le capacità di condizionamento, per le ‘ndrine reggine non si sono mai limitate all’ambito locale. Lo dimostra «l’emblematica vicenda» di Amedeo Matacena, oggi latitante inseguito da una condanna in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ma anche da una nuova ordinanza di custodia cautelare, relativa al procedimento che vede coinvolto anche l’ex ministro Claudio Scajola. «Risulta accertato – mette nero su bianco la Dna – che il Matacena, era diventato il referente politico nazionale della cosca dei Rosmini, dunque di una quelle famiglie dell’elite ‘ndranghetista di Reggio città. La sua elezione al Parlamento nazionale risultava, quindi, propiziata dalla sua disponibilità ad appoggiare sia in sede politica che giudiziaria, le istanze e le richieste provenienti dalla cosca cittadina dei Rosmini ricevendo in cambio un incondizionato appoggio elettorale».
Un dato da anni di pubblico dominio, ma che non ha mai impedito a Matacena di stringere rapporti importanti e confidenziali con l’aristocrazia politica e imprenditoriale italiana.

 

MODELLI POLITICI
Per questo, per la Dna, l’ex politico armatore «rappresenta la perfetta concretizzazione – si direbbe, impermeabile a qualsiasi avversità – delle inossidabili caratteristiche relazionali che deve avere, per la ‘ndrangheta, il politico (e l’imprenditore) colluso». E che negli anni non ha mai smesso di essere tale. Anche dal nuovo procedimento a suo carico emergono nuovi elementi che confermano il ruolo centrale di Matacena per le ‘ndrine reggine. «Attraverso una serie di schermi costituiti da società a lui riconducibili – evidenziano i magistrati della Procura nazionale antimafia – acquisiva un ruolo centrale nella realizzazione di quasi tutte le grandi opere svolte a Reggio Calabria nell’ultimo ventennio, opere in relazione alle quali risultavano preminenti non solo gli interessi della cosca Rosmini ma quelli dell’intera ‘ndrangheta cittadina». E non solo nel mondo degli affari e della politica.

 

L’UOMO DEI CLAN
Da diverse indagini è emerso infatti che Matacena abbia avuto nel tempo anche «incontri diretti, finalizzati alla risoluzione e alla mediazione in complessi affari» con esponenti di primo piano di cosche operanti nella Piana di Gioia Tauro e nel Catanzarese (fra cui quella guidata da Francesco Pino, attualmente collaboratore di Giustizia dai quali riceveva l’impegno di un pieno appoggio in favore di candidati da lui sostenuti e a lui vicini in occasione di tornate elettorali. «Tenuto conto della circostanza che (all’epoca) i gruppi di ‘ndrangheta in questione, erano certamente legati al “Crimine di Polsi”, si comprende come il fatto sia dimostrativo, ancora una volta, del ruolo svolto dalle cosche di Reggio città. Vale a dire quello di mantenere, nell’interesse di tutta la ‘ndrangheta, i rapporti con la politica “alta”. In questo caso infatti, seppure il legame forte del Matacena, accertato giudiziariamente, era quello con i Rosmini che creavano il canale diretto con il politico, questo legame, tuttavia, lungi dall’essere riservato esclusivamente alla predetta cosca e, quindi, gestito in modo monopolistico, si estendeva alle altre componenti della ‘ndrangheta, operanti in territori lontani e diversi».
Una vicenda emblematica del ruolo non solo di Matacena, ma delle ‘ndrine reggine tutte. Allora come ora.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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