Ogni giorno che passa l’ex ministro Maria Carmela Lanzetta sembra ansiosa di regalare soddisfazioni a quanti hanno sempre messo in guardia il Pd e i suoi capimanipolo sulla sua inaffidabilità politica e sull’eccessiva disinvoltura. Ultima a farne le spese, seguendo un blasonato elenco che va da Bersani a Renzi, passando per Civati e Oliverio, è la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi che si vede costretta da Lanzetta a darle se non proprio della bugiarda quantomeno della pasticciona. Si salva, Bindi, perché gli atti della commissione Antimafia sono tenuti a registro nella loro cronologia, per cui può agevolmente dimostrare che l’ex ministro ha chiesto formalmente di essere sentita dalla Commissione e non già, come oggi sostiene, di avere avuto una chiacchierata fra amiche con Bindi, peraltro non nella veste di presidente dell’Antimafia ma come parlamentare eletta in Calabria.
Quella odierna è la terza versione che Lanzetta fornisce alla stampa sul motivo dell’incontro con la commissione Antimafia. In precedenza, infatti, aveva sostenuto di aver ricevuto una convocazione da parte della commissione, ma senza averla sollecitata; subito dopo aveva detto di aver chiesto di parlare solo con la presidente Rosy Bindi e non con tutta la commissione in seduta plenaria. Adesso abbiamo la terza versione: ha chiesto di parlare con la Bindi, ma solo come parlamentare eletta in Calabria.
Quanto, nel mutamento delle versioni, ha influito la reazione che dentro il Pd ha seguito l’annuncio che l’ex ministro sarebbe stata sentita, su sua richiesta, dalla Commissione in seduta plenaria giovedì 26 febbraio?
L’interrogativo non è di poco conto e la stessa presidente Bindi lo carica di nuove motivazioni quando ricorda che già in passato la Commissione aveva ritenuto di sentire Lanzetta, ancora ministro, per farsi spiegare «la contraddizione tra l’evidente simbolo di sindaco antindrangheta da lei assunto e la dichiarazione resa nell’intervista al Corriere della Sera in cui affermava di non avere mai parlato di ‘ndrangheta. Siccome – aggiunge oggi gelida la Bindi – non è il primo caso di contraddizione, il caso Girasole lo insegna, come Commissione intendevamo capire se una persona è oggetto di minacce da parte della ‘ndrangheta o non lo è. Nasce così la delibera dell’Ufficio di presidenza di sentire il ministro Lanzetta. Poi abbiamo avuto molte emergenze e la cosa è rimasta lì».
Insomma, interrottasi la carriera di Lanzetta, la commissione Antimafia aveva ritenuto di non insistere nella sua convocazione perché spiegasse le ragioni per le quali la ‘ndrangheta non era più tra le sue certezze, con riferimento ai gravi atti intimidatori subiti quando era sindaco di Monasterace.
Ragione per la quale la Bindi è rimasta stupita quando, alla vigilia della sua trasferta a Catanzaro, ricevette una telefonata della Lanzetta, utilizziamo le parole della presidente Bindi a scanso di equivoci, «che mi chiama e mi dice: “Chiedo ufficialmente alla presidente dell’Antimafia di essere chiamata perché devo dire delle cose”. Siccome il presidente della commissione non riceve nessuno personalmente, non essendo depositario di nessuna dichiarazione, ho chiesto all’Ufficio di presidenza se intendeva sentirla. L’Ufficio ha ritenuto che fosse importante, e la riceveremo giovedì».
Acida la reazione dell’interessata che, ovviamente è costretta ad ammettere di avere chiamato effettivamente lei Rosy Bindi ma conferma che era qualcosa di personale: «Ho chiesto di parlare con Bindi in qualità di deputato eletto in provincia di Reggio Calabria e che ho sostenuto, e non di parlare in commissione Antimafia. Mi verrà chiesto il motivo per cui non sono entrata in giunta regionale ed io ribadirò che è un problema esclusivamente politico, così come di questioni politiche volevo discutere con la Bindi, per farle avere una visione più ampia del posto in cui è stata eletta ma dove non vive».
Insomma un maledetto equivoco che, tuttavia, adesso va chiarito e in forma ufficiale. L’occasione buona si presenta con la convocazione per giovedì prossimo. Maria Carmela Lanzetta assicura che ci andrà: «Ho accettato l’invito della commissione perché ho rispetto delle istituzioni e speravo di poter parlare in generale della situazione molto preoccupante che c’è in Calabria». Questo, almeno nelle sue intenzioni, ma in quelle della commissione Antimafia ci sarebbe anche altro: capire la matrice dei gravi attentati quando era sindaco; assumere la documentazione sugli esiti avuti dalle indagini (nell’intervista rilasciata al giornalista del Corriere della Sera nel suo ultimo giorno da ministro ha dichiarato di non aver mai detto che dietro quelle intimidazioni c’erano le cosche e svelato che in carcere è finito un «giovane di 18 anni che ha aggredito anche un funzionario regionale e che proviene una famiglia di disperati») e chiarire il “caso De Gaetano”, i cui santini elettorali nel 2010 vennero rinvenuti in casa del latitante Giovanni Tegano e che Oliverio ha voluto in giunta regionale. È stata proprio tale decisione, almeno ufficialmente, a spingere la Lanzetta a non accettare più l’incarico di fare da vice a Oliverio. Quest’ultimo, però, assicura che in precedenza la Lanzetta era stata informata e non aveva obiettato nulla. A riprova di ciò indica fatti e testimonianze: il giorno prima che rendesse noti i nomi degli assessori, nel corso di una riunione ufficiale tenutasi a Gizzeria, De Gaetano sarebbe stato definito dalla stessa Lanzetta «un bravo ragazzo». Erano presenti in tanti e tra questi Oliverio e il capogruppo Pd alla Regione Seby Romeo. Di più, Lanzetta in quella occasione avrebbe fatto riferimento alla vicenda di De Gaetano classificandola come «una campagna denigratoria di settori del Pd reggino che in passato avevano ostacolato anche la sua nomina a ministro».
Adesso di tutto questo si finisce col discutere nella seduta plenaria della commissione parlamentare Antimafia. Non è una cosa edificante, che almeno sia utile a fare chiarezza su un certo modo di fare mafia e un certo vezzo di praticare antimafia.
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