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La violenta “Polvere” di La Ruina

COSENZA Dopo i monologhi femminili di “Dissonorata” e “La Borto”, Saverio La Ruina affronta una nuova sfida con “Polvere”, ultima produzione teatrale della compagnia “Scena verticale” che ha debutt…

Pubblicato il: 28/02/2015 – 9:31
La violenta “Polvere” di La Ruina

COSENZA Dopo i monologhi femminili di “Dissonorata” e “La Borto”, Saverio La Ruina affronta una nuova sfida con “Polvere”, ultima produzione teatrale della compagnia “Scena verticale” che ha debuttato al teatro “Morelli” di Cosenza giovedì sera con una replica di venerdì. Questa volta, l’attore, regista e autore del testo, abbandona le vesti femminili e i lontani contesti socio-culturali disagiati calabresi, per esibirsi in coppia con una donna, Jo Lattari, la cui credibilità interpretativa cresce in proporzione allo svolgimento delle azioni.

Il linguaggio, semplice e ripetitivo, è in lingua italiana. “Polvere” è il subdolo dialogo della violenza. Nelle sua capacità di sembrare ingenua, al primo impatto, essa si svela in tutta la sua follia soffocante che si insinua, attraverso percorsi che hanno della normalità l’aspetto, goccia dopo goccia nella vita della protagonista. Una coppia, fotografo lui e insegnante lei, vivono un normale rapporto di coppia nella casa di quest’ultima. La storia è vissuta nelle quattro mura domestiche: un ampio tavolo occupa il fondo della scena, un quadro raffigurante una donna dall’aspetto stilizzato pende su di esso, due sedie, una bottiglia d’acqua e un appendiabiti con sopra un maglione. Nove tempi scenici, scanditi dal buio e inserti musicali composti da Gianfranco De Franco, prenderanno vita attorno a questa scenografia, che diventerà nello svolgersi dell’azione, la prigione della protagonista e le mura del delirio che abitano la mente dell’uomo. È sottile lo spazio che separa la ferocia dalla tranquillità, sempre ben ovattata grazie a parole come «amore» o «sei proprio una bambina», finzione di una premura quasi paterna. È intento a scavare nel passato della donna, aggirandosi attorno a quel tavolo come fosse un detective, apostrofandola con «adesso ci sediamo, e continuiamo a parlarne» oppure «amore, prenditi un po’ di tempo, pensaci», con un tono sempre pacato e compiaciuto che, nel suo reiterarsi, crea quel tarlo martellante che soffoca la donna. La interroga, tamburellando nervosamente con le dita, sulle sue esperienze precedenti, sull’evento di Roma, che l’ha resa vittima di abusi in una notte di metà estate. Cresce la follia in quest’uomo, in cui la paranoia ha modo di mostrarsi attraverso futili motivi: l’indagine attorno a una sedia spostata «oggi può essere una sedia, domani un uomo. E io ho bisogno di capire se tu sei una donna affidabile» gli dirà in scena, una sigaretta fumata di nascosto, un quadro i cui colori erotici potrebbero rimandare a un’immagine negativa di chi lo possiede. E poi i vestiti «se metti l’abito arancione è perché vuoi farti notare», la frase «ti amo» “abusata” nelle precedenti relazioni paragonata al “gioco delle tre carte”. Cresce progressivamente l’ossessione e la gelosia di quest’uomo, mentre lei si spegne e cambia nell’aspetto. Poco alla volta perde degli accessori: gli orecchini, la collana. Sembra scarna, sempre più flebile nei toni, mentre lui arriva a conquistarne il controllo della mente: «amore, tu dimmi che devo dire che lo dico, che devo pensare che lo penso, che devo fare che lo faccio» dirà lei nel totale abbandono, quando la violenza sessuale può essere colpa di chi la subisce «perché in fondo te la sei meritata e in fondo, te la sei anche cercata». «Amore» una parola ovattata, usata come strumento di tortura. Non solo di botte è fatta la violenza. Trova terreno fertile in parole scontrose, in gesti prepotenti, in prevaricazioni, umiliazioni e sottomissioni. Manda segnali, ma capita che ci si abitui a questa condizione, come gli occhi stanchi in una stanza buia: dopo un poco riescono a vedere nonostante tutto. Ma i contorni degli oggetti non sono quelli reali, si dovrebbe attendere la luce, per poterli osservare in tutta lo loro totalità. Non ci sarà niente a rischiarare la protagonista, neanche dopo il primo schiaffo, neanche dopo l’accusa di essere «puttana e bugiarda», per un’amicizia maschile nascosta. Si ha sempre il desiderio di salire in scena e aiutare la malcapitata, o di consigliarle di scappare via, ma non resta solo che l’interrogarsi su se stessi. Dopo “Polvere” rimane una catarsi che ha bisogno di tempo per trovare pace, e poi commossi applausi.

 

Miriam Guinea
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