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L'ombra della 'ndrangheta sul caso Moro

Torna a Reggio Calabria il pm Gianfranco Donadio, ma questa volta non sarà nelle vesti di sostituto procuratore della Dna. Dalla Procura nazionale antimafia, è uscito dopo la storiaccia dei memoria…

Pubblicato il: 04/03/2015 – 9:33
L'ombra della 'ndrangheta sul caso Moro

Torna a Reggio Calabria il pm Gianfranco Donadio, ma questa volta non sarà nelle vesti di sostituto procuratore della Dna. Dalla Procura nazionale antimafia, è uscito dopo la storiaccia dei memoriali di Lo Giudice, che lo avrebbe accusato di averne drogato la collaborazione per poi rimangiarsi tutto dopo aver interrotto la sua breve latitanza. Circostanze ancora avvolte nel mistero che riguarda il controverso pentito, ma che nulla hanno a che fare con il nuovo incarico di Donadio. A lui, il Csm ha affidato un compito estremamente delicato, che riguarda da vicino uno dei nodi della storia d’Italia: il caso Moro.

 

SULLE TRACCE DI MORO
Il 2 febbraio scorso, il parlamentino dei giudici ha inviato alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Moro l’autorizzazione alla collaborazione a tempo pieno di Donadio, che nelle scorse settimane ha già presentato una prima relazione concernente possibili adempimenti istruttori riguardanti la strage di via Fani. Attività, che per ordine della Commissione lo porteranno in missione a Trieste e a Reggio Calabria, per svolgere attività ricognitiva di documentazione e di risultanze di indagine. Anche la città calabrese dello Stretto infatti rientra a pieno nei nuovi approfondimenti sul rapimento e l’omicidio dello storico segretario Dc, in cui – stando a quanto dichiarato dal pentito Saverio Morabito – anche la ‘ndrangheta avrebbe avuto un ruolo. Una pista più volte emersa in passato, mai fino in fondo indagata e su cui adesso i parlamentari sembrano volerci vedere chiaro.

 

LE RIVELAZIONI DI MORABITO
Anche per questo motivo il 18 febbraio scorso, in commissione è stato chiamato Antonio Marini, oggi procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, ma in passato più volte titolare dell’accusa nei processi che si sono occupati del cosiddetto caso Moro. E proprio in questa veste Marini è stato chiamato a misurarsi con quell’indicazione sulla presenza di Antonio Nirta, detto “due nasi”, che il pm Alberto Nobili aveva strappato al primo grande pentito della ‘ndrangheta al Nord, Saverio Morabito. «Io – racconta Marini ai parlamentari della commissione – ho approfittato del fatto che in quel momento si stesse parlando della presenza addirittura di un uomo della ‘ndrangheta, un certo Antonio Nirta, in via Fani. Ci era giunta da Milano la dichiarazione di un certo Morabito, il quale aveva detto che in via Fani c’era un uomo della ‘ndrangheta che aveva partecipato insieme con i brigatisti all’agguato. Naturalmente, è stata una notizia che ha fatto scalpore, anche all’interno della compagine brigatista, soprattutto all’interno di coloro che stavano in carcere. Io sono andato in tutte le carceri, tra cui Opera, e sono andato tre volte da Moretti, il quale mi ha sbeffeggiato, naturalmente. Ha detto che io ero un provocatore e mi ha chiesto come mi permettessi di andare a dire che avevano fatto l’operazione Moro insieme a uno della ‘ndrangheta, a un certo Antonio Nirta. Sono andato a sentire la Balzerani e tutti coloro che avevano partecipato all’agguato di via Fani, eccetto naturalmente Casimirri, che ormai si era rifugiato all’estero ed eccetto Lojacono, che non ha mai voluto parlare e che stava in Svizzera».

 

PROVOCAZIONI E SILENZI
Interrogatori duri, durante i quali l’allora pm Marini non ha esitato a provocare i brigatisti per tentare di identificare quei personaggi ancora senza volto che avevano partecipato all’agguato di via Fani: «Voi dite così, ma perché non lo venite a dire in aula? Perché non lo venite a dire davanti a una Corte d’assise composta da giudici popolari, che emettono le sentenze in nome del popolo italiano? Perché non venite a dire che voi avete agito da soli, che tra voi non c’erano infiltrazioni, che voi siete “illibati” come dite?».
Provocazioni che se fanno in parte capitolare personaggi di secondo piano come Barbara Balzerani e Anna Laura Braghetti, non convincono a parlare la mente dell’operazione, quel Mauro Moretti che pur essendosi dissociato dalla lotta armata nell’87, non ha mai collaborato con lo Stato. Rimane muto anche Germano Maccari, un altro elemento di rilievo del commando di via Fani, nonostante i ripetuti tentativi di farlo confessare. «Stanno dicendo che voi avevate degli infiltrati – ricorda il magistrato, ripercorrendo quegli interrogatori –. Stanno dicendo che in via Fani c’era uno della ‘ndrangheta e che in via Montalcini c’era un altro dei servizi segreti. Se voi non dite la verità, allora dovete accettare anche queste cose. Questo li ha spinti, soprattutto le donne, la Balzerani, la Braghetti e la Faranda, più che gli uomini. Io mi ricordo la Balzerani. Era una vipera. La spinta fu più l’orgoglio ferito che la pena scontata. Qui abbiamo giocato sulla presunta presenza di Nirta. Che significa che ci abbiamo “giocato”, usiamo fra virgolette questa parola? La presenza di Nirta sarebbe stato un fatto gravissimo. Se si fosse accertato quello che aveva detto Morabito al nostro collega Nobili a Milano, sarebbe stato… Noi, però, non l’abbiamo accertato. Abbiamo indagato, abbiamo forse approfittato di questa situazione per costringere i brigatisti a fare un passo avanti e a dire qualcosa in più di quello che avevano detto, ma non l’abbiamo mai accertato».

 

GLI UOMINI SENZA VOLTO
La presenza di uomini delle ‘ndrine o dei servizi in via Fani è rimasta un dubbio che nessuna indagine è mai riuscita a provare. «Noi – ammette quasi con stizza Marini – non abbiamo mai accertato che a bordo della moto Honda ci fossero due della ‘ndrangheta o due dei servizi segreti». Tuttavia nelle indagini sul rapimento e la morte dello statista è rimasto un buco. «Ancora oggi – dice il magistrato – il mio grande rammarico è che ci sono ancora due persone che, secondo me, restano impunite, quelle a bordo della moto Honda».
Una presenza senza nome e senza volto di cui c’è traccia già nelle motivazioni della sentenza del primo processo Moro, in cui si legge che c’era una «moto Honda di colore blu di grossa cilindrata sulla quale erano due individui, il primo dei quali coperto da un passamontagna scuro e quello dietro che teneva un mitra di piccole dimensioni nella mano sinistra». Uomini mai identificati ma finiti al centro di un’inchiesta della Procura di Roma, su cui oggi pende una richiesta di archiviazione cui si è opposta la figlia di Moro, rappresentata dall’ex giudice, oggi senatore Ferdinando Imposimato. Uomini cui anche per Marini è tuttora importante dare un nome perché «è importante se si accerta, naturalmente, che ci fossero persone degli apparati dello Stato a bordo di quella moto, perché allora stava lì per fare l’attentato, non soltanto per coprire, o nel caso in cui si fossero verificate degli imprevisti. È lì la moto Honda. Questo è un fatto fondamentale, che è stato accertato».
Ma i personaggi senza volto non sarebbero solo quelli da più testimoni visti a bordo della moto. Per il pg Marini, «c’è, secondo me, una terza persona ancora impunita, quella che stava a bordo del furgone in cui era stata portata la cassa». Si tratta del furgone su cui – in base alle ricostruzioni emerse in decenni di processi – sarebbe stato trasportato il corpo di Moro, dopo l’esecuzione, su cui mai i brigatisti hanno voluto dare indicazioni.

 

LA MISSIONE DI DONADIO
È proprio in queste zone d’ombra rimaste in decenni di indagine che la commissione – stando a quanto emerge dalle successive audizioni – sospetta si nasconda la presenza della ‘ndrangheta e di pezzi deviati dello Stato. Non a caso, quando il 28 febbraio si presenta davanti ai parlamentari il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Franco Ionta, da sempre scettico sulla presenza di Nirta a via Fani, è il presidente della commissione in persona Giuseppe Fioroni a rintuzzarlo senza andare troppo per il sottile: «Per ciò che riguarda Nirta, esprimo un’opinione per
sonale. Vorrei capire la motivazione per cui un collaboratore di giustizia che ha fatto arrestare tanti con le sue dichiarazioni ed è stato ritenuto attendibile dal dottor Nobile a Milano diviene inattendibile quando fa riferimento al coinvolgimento di Nirta nel caso Moro. Perché dovrebbe dire una cosa che non c’entra niente su qualcosa che è avvenuto tanti anni prima? Questo mi sembra strano». Stranezze cui anche la missione di Donadio dovrà cercare di dare risposta.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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