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“Piccolo carro”, regge l'impianto dell'accusa

REGGIO CALABRIA Incassano tutti lievi sconti di pena, ma per i tre imputati del processo “Piccolo Carro”, la sentenza emessa nel pomeriggio dalla Corte d’appello di Reggio Calabria è una sostanzial…

Pubblicato il: 04/03/2015 – 18:27
“Piccolo carro”, regge l'impianto dell'accusa

REGGIO CALABRIA Incassano tutti lievi sconti di pena, ma per i tre imputati del processo “Piccolo Carro”, la sentenza emessa nel pomeriggio dalla Corte d’appello di Reggio Calabria è una sostanziale conferma dell’impianto accusatorio, costruito e difeso in primo grado dal pm Giovanni Musarò. Complice la mannaia della prescrizione che ha fatto cadere uno dei reati contestati ai tre, passa da 16 anni e 8 mesi a 11 anni la condanna inflitta a Giovanni Zumbo, l'”antenna” dei servizi al soldo dei clan, pizzicato a soffiare importanti informazioni all’orecchio del boss Giuseppe Pelle. Per Giovanni Ficara, leader di un ramo dell’omonimo clan, la Corte ha disposto una condanna a 8 anni e due mesi di reclusione, in luogo degli undici rimediati in precedenza. Ma arriva una diminuzione di pena anche per il meccanico Domenico Demetrio Praticò, individuato dall’istruttoria come braccio destro del boss e per questo condannato a 15 anni e 8 mesi, oggi ridotti a “solo” 11 anni di reclusione.
Passa dunque anche il vaglio della Corte d’appello il procedimento che ha iniziato a svelare il ruolo di Giovanni Zumbo, uno dei primi insospettabili colletti grigi, pizzicato a svolgere il lavoro sporco per i clan. Ex “antenna” dei servizi, con un passato da assistente alle dipendenze dell’ex assessore al Personale e oggi sottosegretario della giunta regionale Alberto Sarra, Zumbo è stato incastrato dagli investigatori per il ritrovamento di un falso arsenale il giorno della visita del presidente Napolitano a Reggio Calabria. Fu lui infatti a far ritrovare l’auto, una Fiat Marea tanto carica di armi ed esplosivi da sembrare un arsenale, con una telefonata. Una farsa, secondo gli inquirenti, che – nei piani di Zumbo e di chi come una pedina lo guidava – avrebbe dovuto rivelarsi utile per accreditarsi quale fonte affidabile presso Procura e magistrati. Un piano ben studiato cui hanno collaborato anche i due coimputati della talpa, Demetrio Domenico Praticò e il capo dell’omonimo clan, Giovanni Ficara, ma di cui ancora rimangono da chiarire le finalità strategiche di lungo periodo. Nonostante il procedimento sia approdato indenne in secondo grado, gli interrogativi che l’indagine sulla talpa ha sollevato allo stato – come lo stesso Musarò aveva sottolineato in sede di requisitoria – rimangono insoluti.
Intercettato in casa del mammasantissima Peppe Pelle, è lo stesso Zumbo a presentarsi, spendendo una credenziale importante: la sua appartenenza ai servizi segreti, con i quali – sostiene – ha rapporti più che radicati. «Ho fatto parte di… e faccio parte tuttora di un sistema che è molto, molto più vasto di quello che (…) – racconta Zumbo, presentandosi a don Peppe Pelle – ma vi dico una cosa e ve la dico in tutta onestà: sunnu i peggio porcarusi du mundu (sono gli schifosi peggiori al mondo, ndr) e io che mi sento una persona onesta, e sono onesto, e so di essere onesto… molte volte mi trovo a sentire… a dovere fare… non a fare a fare, perché non me lo possono imporre, ma a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!».
Cosa abbia detto o fatto Zumbo e per conto di chi non è dato sapere, tanto meno per quale motivo i servizi segreti militari (Sismi prima, Aise poi) abbiano sentito la necessità di avere una propria base a Reggio Calabria. Ma stando a quello che l’ex amministratore di beni confiscati raccontava al boss della jonica, mentre le microspie dei Ros registravano, a trattare con lui non c’erano solo i terminali locali delle agenzie di informazione, ma «sono scese persone… pezzi grossi da Roma! Sono venuti in giacca e cravatta».
Chiamati a rispondere a processo, gli allora responsabili delle agenzie di informazioni in città – Corrado D’Antoni, numero due di quel Marco Mancini di recente condannato a nove anni di reclusione per lo scandalo Abu Omar e che Zumbo sostiene di aver più volte incontrato – si sono trincerati dietro il segreto di Stato o risposte omissive e contraddittorie, in seguito smentite da altri uomini dello Stato.
Rimane dunque ancora tutto da investigare e da chiarire l’interrogativo che i giudici hanno messo nero su bianco nel decreto di fermo: «Come Zumbo, professionista stimato, accreditato presso gli uffici giudiziari e di polizia e le agenzie di sicurezza, abbia avuto la possibilità, per un prolungato periodo di tempo e con apparente totale facilità, di conoscere nel dettaglio le più importanti e delicate indagini dell’Arma dei carabinieri; abbia poi coltivato un intenso rapporto con un esponente di rilievo delle cosche di ‘ndrangheta come Ficara Giovanni mettendosi a sua disposizione senza (apparentemente) nulla chiedere in cambio e presentandosi come collaboratore esterno dei servizi segreti?».

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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