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“Caro compagno”: le lettere di Gullo per capire il Sud

«La questione meridionale come problema centrale dello Stato». Inteso? Non problema dei meridionali. Né cavallo di Troia per velleità leghiste o pretesto per un messaggio di 120 caratteri su Twitte…

Pubblicato il: 09/03/2015 – 10:12
“Caro compagno”: le lettere di Gullo per capire il Sud

«La questione meridionale come problema centrale dello Stato». Inteso? Non problema dei meridionali. Né cavallo di Troia per velleità leghiste o pretesto per un messaggio di 120 caratteri su Twitter. Ma vicenda irrisolta (devastante, per ciò che la contraddistingue: sottosviluppo e diseguaglianze sociali, mafia, spopolamento dell’entroterra ed urbanesimo malato) che investe l’essenza dello Stato. Sembra una frase detta oggi. Cose simili capita d’orecchiarle. Mai, però, col tono perentorio usato da don Fausto. Anzi, a volte intuendo un lieve fastidio. È evidente che il Sud e i suoi mal di pancia, «in questa stagione confusa e degradata della vita nazionale», sono moneta fuori corso. Il concetto, inossidabile per ogni politica che sul serio volesse occuparsi del Paese, ha fatto da sfondo a tutto l’itinerario politico (iniziato nel 1912 con “L’Appello agli elettori del mandamento di Spezzano Grande” e conclusosi con “La lettera di saluto agli elettori” del 1972) del “ministro dei contadini”: Fausto Gullo (Catanzaro 1887-Spezzano Piccolo 1974).

 

LEZIONE POLITICA E DIVERTISSEMENT CULTURALE
Dalla vasta cultura umanistica e dalle prese di posizione non sempre ortodosse. «Uomo di leggendaria intransigenza morale, animato da una visione profondamente egalitaria dei rapporti umani», scrive nella prefazione al volume di Oscar Greco (“Caro Compagno / L’epistolario di Fausto Gullo”, Guida editori, 27 euro) Piero Bevilacqua che, perciò, lo definisce «personaggio inattuale nel panorama depresso dei nostri anni». Da cui prendere lezioni; ma, dato che è alquanto improbabile, di cui almeno, se si volesse dare senso alla politica scarnificata nell’era dei social network, studiare le lettere. Duecentotredici. Tante delle quali manoscritte, che, lezioni politiche a parte, rappresentano, per la molteplicità di aneddoti, eventi minuti accostati a svolte epocali, inquiete storie personali, richieste d’aiuto d’ogni tipo (Galante Garrone chiedeva a Gullo di rimediargli il numero 1 di “Rinascita”), un vero godimento culturale. Che a volte sfocia in ironia inattesa, dato che il contesto è calpestato da uomini e donne indaffarati, da Nord a Sud, a costruire la nascente democrazia ed a preservarla (purtroppo con scarsi esiti) dai malmostosi inquinamenti dell’ancien régime lesto a riciclarsi. E c’è di tutto e di più. Scrivono Togliatti, Fortunato, Michele Salerno (la cui vita spericolata è raccontata dal figlio Eric in “Rossi a Manhattan”), De Gasperi, Vassalli, Calamandrei, Paolo Cinanni ( al solito “incompreso” da Amendola e Paietta), Terracini, Luigi Silipo, il militante comunista assassinato a Catanzaro nel 1965 che ispira il romanzo “Blocco 52”, Longo, Ingrao, Grieco, Cavallaro della “Repubblica di Caulonia” difeso da Gullo, Labriola, Pietro Mancini, La Cava, dispiaciuto per la disattenzione dell’editoria sui suoi lavori, Pannella, Reichlin, Scoccimarro, Franco Piperno (Gullo non condivise l’ostilità del Pci per la contestazione studentesca), Repaci, Berlinguer. Divertissement, ma anche occasione per comprendere l’ossatura della politica al tempo in cui era intrecciata fittamente all’etica e vantava un primato sull’economia, le vicissitudini dell’Italia affrancatasi dalla “cricca agrario-monarchico-fascista” e il fallimento della riforma agraria nel Sud.

 

SPIEGÒ A TOGLIATTI IL MEZZOGIORNO
Siamo nel secondo dopoguerra. Sta per iniziare il decennio (1943-1953) che diede al Mezzogiorno un’opportunità formidabile di riscatto, ma alla fine del quale, traditi gli impegni, a questa parte del Paese restavano soltanto gli occhi per piangere. Se avesse vinto quel tornante della storia, il Mezzogiorno non avrebbe subito la mafia e la corruzione della spesa pubblica senza sviluppo. I suoi figli non sarebbero emigrati. La qualità della vita, la cittadinanza attiva, il senso dello Stato avrebbero avuto altro radicamento. Ecco perché quel decennio torna d’attualità, benché lo si voglia tenere distante dal dibattito pubblico. Ecco perché è annoverato tra i momenti «più innovativi nella storia dello Stato italiano» (Bevilacqua) e uno «degli avvenimenti più rivoluzionari nella storia italiana di questo dopoguerra», come ha scritto Sidney Tarrow. Al centro di quel sommovimento si pose Gullo. Che spiega a Togliatti (il quale lo volle al ministero dell’Agricoltura nel secondo governo Badoglio e poi ministro alla Giustizia con De Gasperi) la condizione della struttura sociale del Sud, la centralità del problema agrario, l’importanza delle lotte per le terre, la necessità di collegare il movimento contadino meridionale alla lotta di liberazione che si svolgeva nel Paese. A fluidificare l’entrata nella storia, per la prima volta, delle masse contadine, fu proprio il decreto “sulle terre incolte e mal coltivate” dell’ottobre 1944 che, insieme agli altri decreti (sei in tutto) per l’eliminazione del latifondo, collegò lo Stato e le masse povere dei senza terra meridionali.

 

SI OCCUPÒ DI FAMIGLIE DI FATTO E DELLA DEMOCRAZIA DI GENERE
È stato setacciato da innumerevoli studi il politico Gullo. Nota la sua inconciliabilità con la politica agraria degli anni ’50 e con le scelte strategiche del gruppo dirigente togliattiano. Ciò che traspare dalle lettere chiosate con lucidità dal professor Greco e che rendono il volume assai interessante, oltre alla sua attività di giurista e avvocato, alle sue battaglie parlamentari e nella Costituente (intrigherà qualcuno sapere che Gullo, proprio alla Costituente, si occupò della famiglia e della famiglia di fatto, del divorzio e persino della democrazia di genere?) è la forza di carattere e l’equilibrio di un politico che teneva una fitta corrispondenza con i personaggi più in vista del suo tempo, ma anche con sconosciuti militanti del suo partito, contadini calabresi, amici e persone comuni. Lettere ricevute ed inviate da cui traspare la sua autonomia di giudizio («tenne sempre ferma l’idea – spiega Oscar Greco – dell’ineluttabile necessità di un radicale cambiamento degli assetti politici ed economici del Paese fuori da ogni mefitico scenario di affari e compromessi») che gli valse l’ostilità dell’apparato, infastidito per la sua popolarità e il suo enorme prestigio e la capacità di non dissimulare le sue radici e la sua vicinanza alle plebi contadine, soprattutto quando assunse incarichi di governo e apicali responsabilità politiche.

 

*Capo ufficio stampa del Consiglio regionale

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