REGGIO CALABRIA Un uomo di ‘ndrangheta, nato all’ombra della cosca Pesce-Bellocco, ma divenuto un broker, un diplomatico, un uomo di tutti, da tutti riconosciuto, ascoltato, garantito, in grado di valutare situazioni spinose e rimediare a incomprensioni, «dialogare e rappresentare gli interessi, alle volte potenzialmente opposti, di differenti cosche che costituiscono espressione più diretta delle famiglie mafiose maggiorenti sul territorio, in modo da raggiungere il ricercato “compromesso” tra le esigenze dei vari gruppi criminali e così prevenire eventuali conflitti». È Gianluca Favara, ritenuto organico alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, ma soprattutto un ambasciatore e broker dei clan, il personaggio chiave dell’inchiesta ‘ndrangheta banking, oggi arrivata alle porte dell’udienza preliminare. Uomo dai mille “talenti” e mille compiti, per gli inquirenti, come in Calabria veicolava informazioni, Gianluca Favara lavorava per impossessarsi di imprese e aziende. Fra queste c’erano anche quelle dell’imprenditore Agostino Augusto, ingegnere milanese titolare dell’impresa Makeall, ma soprattutto di cinque case di cura, già finito al centro dell’operazione “Mentore” della Dda milanese.
IL RUOLO DI RAPPOCCIO
Tentato dal prestito dei clan, trascinato fino in Calabria, terrorizzato e minacciato, Augusto nel giro di pochi mesi si trasforma da rampante imprenditore in impaurita marionetta nelle mani di Favara e dei suoi sgherri che sul suo impero puntano a mettere le mani, proprio tramite Pasquale Rappoccio. Presentato all’imprenditore milanese in difficoltà come un «amico competente per materia», in grado di fornire in fretta le attrezzature mediche necessarie all’allestimento di tre case di cura, l’ex rappresentante della Medinex era stato chiamato in realtà a rilevare a prezzi stracciati l’ormai zoppicante Makeall spa. Una manovra a tenaglia che avrebbe visto da una parte Favara mettere spalle al muro con pressioni fisiche e verbali l’ingegnere milanese – Augusto finirà due volte in ospedale – dall’altra, Rappoccio chiamato a presentarsi come unico interlocutore finanziario disponibile. «Un ganglio della famiglia Pesce-Bellocco – si legge nell’ordinanza – si inserisce quasi in punta di piedi nella vita dell’imprenditore per poi assumerne il totale controllo e determinarne il totale assoggettamento e asservimento alle volontà di un sedicente “legatus” di famiglie mafiose calabresi. Il contesto sociale ed economico in cui operava l’ingegner Augusto ha costituito il terreno fertile sul quale Favara Gianluca ha potuto operare concentrando e radicando la propria azione sfruttando anche quella di altre realtà associative sia ‘ndranghetiste, come con la “locale di Lonate Pozzolo”, rappresentata da Rispoli Vincenzo, ovvero di ordinari gruppi di usurai, come i personaggi inseriti nella Rodes s.r.l., attuando così un comune programma delinquenziale»..
I SATELLITI CRIMINALI DI FAVARA
Ma attorno a Gianluca Favara si muove una galassia criminale che va ben oltre una – pur importante – locale milanese, o uno sparuto gruppo di usurai lombardi. L’ambasciatore ha contatti con il clan Rinzivillo, gli “stiddari” di Gela, mentre coinvolge negli affari del clan anche Fortunato Paonessa, ufficialmente titolare della Vecam, per gli inquirenti presunto ambasciatore a Milano dei Condello-Imerti, ma anche il capo della locale di Fondi, Antonino Venanzio Tripodo, figlio di quel don Mico Tripodo la cui morte suggellerà la prima guerra di ‘ndrangheta. Ma quando Favara ha bisogno di consigli o di risolvere “questioni” sorte con altri gruppi delinquenziali, o ancora progettare affari come un non meglio specificato traffico di droga da perfezionare con la cosca mafiosa Muià-Facchineri, è il “cordone ombelicale” con la casa madre che torna a farsi sentire e, secondo le indagini, è a Domenico Arena – contiguo al broker della droga Giuseppe Coluccio – che chiede supporto, consiglio e lumi sul da farsi. Tutte questioni risolte con un perentorio «devi dire che così è perché l’ho detto io» di Arena, che in maniera più che eloquente colloca in Calabria il reale baricentro dell’intero sistema. Una rete fitta e ramificata di interessi e affari meneghini, ma con cuore e testa calabrese che in Favara aveva il dominus e in Carlo Avallone, l’ingegnere, un elemento fondamentale. Lombardo doc, nato a Milano e residente a Gerenzano, per gli inquirenti Avallone era un vero e proprio «procacciatore di imprenditori in difficoltà da sottoporre ad usura prima, estorsione poi, e infine all’acquisizione di quanto di buono rimaneva nelle differenti società». E anche l’ingegnere, al pari di Favara e di protagonisti e comparse di questa storia, non è uno sconosciuto per gli inquirenti: nel 2003 è stato coinvolto in un’indagine coordinata dalla Procura di Novara per riciclaggio di assegni e altri mezzi di pagamento bancari, associazione per delinquere e ricettazione di assegni in cui faceva capolino – tra gli altri – un commercialista di Rosarno, Gregorio Laruffa che gli inquirenti indicano come vicino a Bruno Siclari, altro colletto bianco che in Calabria ha legato il suo nome e la sua fortuna ai clan e per questo finito dietro le sbarre. Un network composito, ma che in Gianluca Favara e nel suo progetto criminale avrebbe avuto il suo baricentro e il suo unico e unitario obiettivo. «Questa operazione – conclude il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho – deve costituire un monito per gli imprenditori. Quegli sprovveduti che ancora fanno ricorso alla ‘ndrangheta devono capire che non solo perdono i propri soldi, ma anche la propria incolumità e libertà».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x