La riforma della responsabilità civile dei magistrati è legge dello Stato. Il presidente del Consiglio ha messo in rete le foto che lo ritraggono mentre appone la sua firma in calce alla legge (ma le leggi non le approva il Parlamento e non le promulga il Capo dello Stato?), come se si trattasse di un trofeo di caccia grossa di cui menare vanto. Secondo i (numerosi) fautori della riforma, (che ne lamentano semmai la debolezza) finalmente i cittadini sono adesso più protetti e i magistrati che sbagliano dovranno finalmente pagare. Sono più volte intervenuto sull’argomento, ma occorrono alcune puntualizzazioni vista la grande confusione esistente, accresciuta dall’utilizzazione di informazioni palesemente false, che puntano a delegittimare la magistratura per giustificare l’adozione di più stringenti norme in materia di responsabilità. In un anno di governo Renzi, sono state emanate tre leggi riguardanti la magistratura, premettendo che le riforme dei codici civili, penali e di procedura, sono riforme della giustizia, che i giudici auspicano nell’interesse dei cittadini e della legalità, non certo per vantaggi della categoria.
Le riforme che attengono l’organizzazione del lavoro dei giudici, il loro assetto ordinamentale, sono: l’anticipo dell’età pensionabile da 75 a 70 anni, la riduzione delle ferie, la riforma della responsabilità civile. Per mera coincidenza, si tratta di riforme che, nell’intenzione più o meno manifesta del governo, sono, o comunque appaiono, fortemente punitive nei confronti dei privilegi della “casta” giudiziaria, un segnale forte del primato della politica, un’esplicita manifestazione di contrapposizione verso una delle fondamentali istituzioni dello Stato, chiamata a svolgere la funzione primaria dell’amministrazione della giustizia, strumento di realizzazione dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, di tutela dei diritti individuali e collettivi, di repressione di ogni forma di illegalità. Per giustificare gli interventi punitivi riferiti, occorreva diffondere e inculcare nell’opinione pubblica, alcune falsità, che sono: i giudici non lavorano quanto dovrebbero, sono fannulloni e accumulano solo ritardi nella definizione dei processi; sono malati di protagonismo a fini di affermazione personale e politica; spesso danneggiano i cittadini con decisioni e provvedimenti illegittimi per colpa grave e addirittura dolo; anche le corti di giustizia comunitarie chiedono all’Italia forme di responsabilità civile più incisive di quelle vigenti. Si tratta di balle spaziali, prive di fondamento.
Punto primo: Le statistiche ufficiali di organismi europei indipendenti collocano i magistrati italiani in testa alle classifiche per numero di procedimenti trattati e definiti sia in civile che in penale, per numero di processi sopravvenuti, quindi per carichi di lavoro assegnati a ciascuno di essi.
Punto secondo: Se i casi di accertata responsabilità civile dei magistrati sono pochi su milioni di processi definiti, l’opinione pubblica dovrebbe essere soddisfatta: significa che, nonostante tutto, l’enorme carico di lavoro che grava sui magistrati non impedisce loro di amministrare giustizia con rigore, professionalità, competenza giuridica. In ogni caso, il sistema delle impugnazioni è sufficiente a correggere i casi di errata interpretazione della legge e delle prove, di violazioni delle norme nazionali e comunitarie, di illegittima applicazione di misure cautelari personali e reali. Punto terzo: Ho già ripetuto che la formuletta, oltremodo abusata, «ce lo chiede l’Europa», è anch’essa falsa. Nessuno di coloro che ne parla ha probabilmente letto la sentenza della corte di giustizia europea, o se l’ha letta, ne distorce dolosamente il senso. Quella sentenza dice cosa diversa e riguarda unicamente la responsabilità dello Stato e non quella dei giudici, sui quali nulla chiede.
Detto questo, va ricordato che i tratti distintivi che caratterizzano negativamente la nuova legge in materia di responsabilità civile dei magistrati, sono sostanzialmente due: il primo consiste nell’intima contraddizione esistente tra il disposto dell’art. 2, secondo il quale «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» e il successivo art. 3 nel quale invece si dispone che causa di responsabilità è «il travisamento del fatto o delle prove», definizione quest’ultima di uno dei normali vizi di una sentenza o di un’ordinanza, che la rendono impugnabile ed eventualmente suscettibile di riforma in Appello o di annullamento in Cassazione.
Assimilare un vizio della sentenza per il quale è possibile proporre impugnazione, a un’ipotesi di colpa grave, per la quale scatta la responsabilità civile del giudice, significa dilatare in modo incontrollabile l’area di applicazione della responsabilità civile a ogni provvedimento giudiziario che contenga la valutazione discrezionale del fatto e delle prove, e che la parte controinteressata ritiene invece frutto di travisamento. Il secondo elemento, che trae alimento proprio da quello appena considerato, consiste nella prevedibile enorme massa di ricorsi che si abbatteranno sulla giustizia civile italiana, tale da neutralizzare gli effetti deflattivi che governo e parlamento si propongono di ottenere attraverso la riforma e l’informatizzazione del processo civile.
Tale pericolo è tanto più concreto a seguito dell’eliminazione del filtro di ammissibilità, che è sempre stato presente nella legislazione italiana, sia sotto il regime codicistico precedente al referendum (nel quale il filtro di ammissibilità era affidato al Ministro della Giustizia), sia sotto il regime della legge Vassalli, successiva al referendum, nel quale era lo stesso giudice del giudizio a dichiarare inammissibili i ricorsi palesemente infondati (che erano e continueranno ad essere la stragrande maggioranza). L’eliminazione del filtro di ammissibilità, oltre all’effetto di aumentare a dismisura le sopravvenienze e i carichi di lavoro del settore civile, si pone come profilo di incostituzionalità della legge. Nessuno ha ricordato in questi giorni che la Corte costituzionale è intervenuta più volte in materia di responsabilità civile, sotto vari profili, e in tutte le occasioni ha superato le perplessità di ordine costituzionale sollevate, proprio grazie alla presenza di un filtro di ammissibilità, senza il quale sarebbero stati messi in pericolo (e lo saranno quindi in concreto, d’ora in poi) i valori dell’autonomia e indipendenza della magistratura e della stessa giurisdizione.
Agli illustri giuristi che in questa settimana hanno occupato le tribune televisive per ripetere le falsità e gli slogan di maniera, vanno ricordate almeno quattro sentenze della Corte: la prima è la n. 26 del 1987, con la quale si ritenne ammissibile il referendum in questa materia; e quindi la n. 18 del 1989, la n. 468 del 1990 e, infine, la n. 298 del 1993. Con la prima di queste sentenze, la Corte chiariva che la legge, successiva al referendum, avrebbe dovuto disciplinare variamente la responsabilità per categorie o situazioni «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la magistratura (artt. 101-113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni».
Con la seconda sentenza, la n. 18 del 1989, la Corte diede atto che l’assemblea generale dell’Onu, tenendo conto della particolarità della funzione giurisdizionale, con una risoluzione adottata il 29 novembre 1985, aveva affermato il principio secondo il quale i giudici devono godere d’immunità personale dalle azioni civili di risarcimento dei danni patrimoniali derivanti da atti impropri od omissioni nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Aggiunse però che la risoluzione dell’Onu non poteva qualificarsi come norma di diritto internazionale generale e quindi non aveva natura vincolante pe
r il legislatore nazionale.
Di particolare interesse è la sentenza n. 468 del 1990, con la quale la Corte costituzionale dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge n. 117/1988 (legge Vassalli), norma che disponeva l’applicabilità della nuova disciplina, comprensiva di filtro di ammissibilità, solo ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato dopo l’entrata in vigore della legge, così motivando: questa Corte aveva ribadito in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo la indispensabilità di un “filtro” a garanzia della indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale; la mancata previsione nel contesto dell’art. 19 della legge n. 117 del 1988, di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 della Carta costituzionale determina il vulnus-prima ancora che dei suddetti parametri-del principio di non irragionevolezza implicato dall’art. 3 della Costituzione. Per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall’esercizio di quella funzione, l’art. 19 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il Tribunale competente, con rito camerale e conseguente applicazione degli ordinari reclami ed impugnazioni, verifichi la non manifesta infondatezza della domanda ai fini dell’ammissibilità dell’azione di responsabilità nei confronti del magistrato promossa successivamente al 7 aprile 1988, per fatti anteriori al 16 aprile 1988, data di entrata in vigore della legge n. 117.
Tali principi vennero ribaditi e precisati con la successiva sentenza n. 298 del 1993 e non sembri pedante e astruso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale (richiamo che, in uno stato di diritto, dovrebbe
essere preliminare ad ogni valutazione politica, anche nella triste situazione presente nella quale valgono maggiormente i richiami ai messaggi twitter del padrone) dal momento che la questione della costituzionalità della nuova legge, sempre che non venga sollevata espressamente dal Capo dello Stato mediante un rinvio al Parlamento, sarà sicuramente eccepita in occasione dei primi giudizi di responsabilità azionati sotto i principi della nuova normativa.
A margine, delle questioni sollevate sinora, che attengono al rispetto delle ineludibili garanzie poste dalla Costituzione a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, voglio sottolineare come quella che viene definita la casta della magistratura, tacciata spesso di corporativismo, è intervenuta nel dibattito preliminare all’approvazione della legge, in modo disunito, tardivo e del tutto inadeguato. Oltre ai principi di diritto già visti, avrebbe a esempio dovuto sollevare i problemi delle condizioni di lavoro dei giudici. L’interesse dello Stato non dovrebbe essere quello di sanzionare il maggior numero possibile di magistrati per gli errori compiuti, quanto di creare condizioni di lavoro che consentano loro di giudicare con la serenità, i tempi di studio, di riflessione e di stesura dei provvedimenti, necessari per evitare errori e violazioni.
Di questo, né governo, né Parlamento sembrano preoccuparsi minimamente, mentre sarebbe necessario un tetto massimo di processi civili e penali assegnati ad un singolo giudice, al fine di evitare errori e ritardi e quindi responsabilità civili e disciplinari (forse pochi sanno che la maggior parte delle sanzioni disciplinari irrogate dal Csm, non riguarda errori giudiziari o violazioni di legge, ma semplicemente ritardo nel deposito delle sentenze per l’eccessivo carico di lavoro gravante sui magistrati giudicanti). Di questo, ovviamente, non si parla.
*Magistrato
x
x