REGGIO CALABRIA Sono richieste pesanti quelle avanzate dal pm Matteo Centini al termine della sua requisitoria al processo Sant’Anna, scaturito dall’inchiesta che ha fatto saltare i piani del patriarca Umberto Bellocco, dopo la sua scarcerazione, personalmente impegnato a ristabilire gli equilibri criminali nella “sua” Rosarno. Un’egemonia insidiata dalla famiglia Pesce e che l’anziano boss si apprestava a difendere, non solo tornando a rivestire la direzione strategica del clan, ma se necessario, anche con la forza.
LE RICHIESTE DEL PM
Anche per questo, proprio per lui il pm Centini, ha chiesto oggi la condanna più alta. Per la pubblica accusa, l’anziano boss dovrebbe passare in carcere 18 anni e 4 mesi, mentre è di 14 anni e 8 mesi, la richiesta di pena avanzata per il nipote, Umberto Emanuele Oliveri. Tredici anni e quattro mesi sono stati chiesti invece per Salvatore Barone, mentre è di 12 anni e 8 mesi la pena invocata per Elvira Messina. Il pm Matteo Centini ha anche chiesto ai giudici di condannare a 10 anni e quattro mesi Domenico Bellocco cl.87, a 10 anni Giuseppe Ciraolo e Francesco Oliveri, mentre è di 8 anni e 8 mesi la condanna chiesta per Michele Forte. Pene minori sono state invocate invece per i tredici imputati, arrestati in una seconda tranche dell’operazione, accusati di favoreggiamento personale aggravato dalle modalità mafiose per aver agevolato la latitanza del 34enne Giuseppe Pesce. In dettaglio, 2 anni e 8 mesi sono stati chiesti per Antonella Bartolo cl.84, 2 anni 5 mesi e 10 giorni Rosanna Bartolo, Francesca Spagnolo, Fabio Cimato e Domenico Corrao, 2 anni 2 mesi e 10 giorni Antonella Bartolo cl.64, Antonella Bruzzese e Giuseppe Comandè cl.83, 2 anni per Biagio Sergio e 1 anno 9 mesi e 10 giorni per Massimo Paladino, Salvatore Zangari, Mercurio Cimatoe Giorgio Seminara.
RESTAURAZIONE DI UN IMPERO CRIMINALE
Fatta eccezione per i favoreggiatori, per gli inquirenti gli imputati del procedimento Sant’Anna sono tutti responsabili a vario titolo di associazione mafiosa e porto e detenzione illegale di armi e munizioni, aggravati dalle finalità mafiose, perché tutti avrebbero in diverso modo collaborato alla rapida restaurazione dell’impero criminale che il boss Bellocco aveva visto vacillare. Ventun’ anni di carcere sono lunghi e nonostante l’anziano patriarca non avesse mai smesso di impartire ordini e direttive, trasmessi all’esterno – testimoniano i video del Ros agli atti dell’inchiesta – dai familiari che regolarmente lo incontravano a colloquio, appena uscito dal carcere ha dovuto far sentire tutto il peso del suo carisma criminale per ristabilire gli equilibri nella “sua” Rosarno. Spogliata dei capi condannati a lunghe pene detentive, assottigliata nei ranghi dalle innumerevoli operazioni che l’hanno colpita, la cosca attendeva con ansia la scarcerazione dell’anziano Bellocco – come uno dei nipoti del boss, Umberto Emanuele Olivieri – confidava, intercettato, a un amico in chat: «Hermano sta x uscire dal carcere mio zio che si chiama come me… E a lui devono dare conto tutta la Calabria». Appoggiato da un esercito di nipoti «cresciuti nel mito dello zio detenuto», l’anziano patriarca si sarebbe immediatamente dato da fare per riattivare l’attività del clan, come per incontrare altri boss di pari peso criminale del circondario, come quel Teodoro Crea di Rizziconi che non riuscirà a incontrare, solo perché colpito da una nuova misura cautelare.
TUTTA COLPA DELLA MICROSPIA
A svelare a inquirenti e investigatori le manovre di Umberto Bellocco è stata la microspia piazzata nella sua abitazione. Ascoltando l’anziano patriarca gli investigatori hanno infatti avuto modo di raccogliere innumerevoli elementi sui futuri progetti del clan, che sotto la guida del boss – “uomo di rispetto” anche per altri clan come i Caporosso della Sacra Corona Unita – mirava a riprendere il predominio su Rosarno, scalzando i Pesce. Un progetto per il quale il clan poteva contare su un proprio arsenale, che non avrebbe avuto alcuna difficoltà né esitazione ad ampliare, anche grazie ai proventi derivanti dai traffici di droga gestiti nel porto di Gioia Tauro. Un “ramo di attività” appaltato dal “capo” al nipote Umberto Emanuele Olivieri, già oggetto di approfondimenti investigativi da parte della guardia di finanza, perché individuato come quale reggente degli interessi della potente cosca nei traffici illeciti all’interno del porto di Gioia Tauro.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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