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Il finale grottesco di un romanzo tutto vibonese

Prima o poi doveva succedere. E poco importa se quello che si sta scrivendo in queste settimane sia o meno il capitolo conclusivo del romanzo ventennale della Provincia di Vibo. La bomba era lì, pr…

Pubblicato il: 21/03/2015 – 15:43

Prima o poi doveva succedere. E poco importa se quello che si sta scrivendo in queste settimane sia o meno il capitolo conclusivo del romanzo ventennale della Provincia di Vibo. La bomba era lì, pronta a esplodere da anni. Lo sapevano tutti. Mancava solo che qualcuno attivasse l’innesco. E ora c’è poco da girarci attorno: è caduto il velo di ipocrisia che copriva tutto ciò che è successo negli anni all’ombra del palazzo di contrada Bitonto. Ciò non è dovuto, ovviamente, a una tardiva operazione verità, ma solo al fatto che ora l’ordigno è scoppiato all’improvviso nelle mani degli ultimi arrivati – che, probabilmente, quando qualche mese fa si ingegnavano nella nuova formula consociativista di conquista del potere avevano immaginato ben altri onori.
Ma la memoria dei bei tempi andati dovrebbe aiutare un po’ tutti a mantenere, sull’argomento, quantomeno un profilo basso. Il discorso dovrebbe valere per chi – tra politici, dirigenti, sindacalisti e dipendenti – durante gli ultimi vent’anni in quelle stanze si è dimenato festosamente alla stregua del grottesco Cirino Pomicino de Il Divo di Sorrentino. La festa è finita da un pezzo, e di quelle vacche molto in carne oggi non sono rimasti neanche i resti. Tutto dimenticato.
E invece sarebbe proprio questo il momento di ricordare che ci fu un tempo in cui il potere del centrosinistra vibonese sulla “nuova” Provincia era talmente incontrastato che tra alleati si litigava per lottizzare ogni cosa, dalle forniture del materiale di cancelleria fino ai santi patroni. È il momento di rileggere gli articoli in cui Gian Antonio Stella raccontava sghignazzando come da queste parti San Bruno fosse finito in “quota Loiero” mentre San Francesco era invece “portato” dalla Margherita. È il momento di riflettere su come questo ente sia stato plasmato per rispondere alle esigenze di chi ci ha accumulato sopra un capitale spendibile e rinnovabile ad ogni tornata elettorale. È il momento di chiedersi a chi siano veramente serviti anni di sprechi, di clientele spudorate e di connivenze inconfessabili e tuttora inesplorate. È il momento, soprattutto, di chiedere conto a chi ha creato questo mostro e oggi volge lo sguardo altrove fischiettando con candore, e anche a chi ne ha ereditato i metodi di gestione scientifica del consenso e si ciba tuttora del cadavere di quel moloch di carta ormai rovinato nel fango.
Ed è il momento, specie per i vari Torquemada che alternano alle pubbliche virtù i soliti malcelati vecchi vizi, di buttare quella maschera che ormai, alla luce degli eventi, è diventata trasparente.
La mammella è stata spremuta fino all’ultima goccia. E ora che non c’è più nulla da succhiare i mandriani di ieri osservano il palazzo in fiamme da una distanza di sicurezza. Magari continuando ad auspicare democrazia, ma sempre, per dirla con De Andrè, «con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni».

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