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Che differenza c'è fra 'ndrangheta e Isis?

Da quando le bandiere nere dell’Isis sventolano minacciose su orizzonti non troppo lontani, non è difficile incappare in servizi e reportage che promettono di spiegare la barbarie del califfato che…

Pubblicato il: 23/03/2015 – 14:12

Da quando le bandiere nere dell’Isis sventolano minacciose su orizzonti non troppo lontani, non è difficile incappare in servizi e reportage che promettono di spiegare la barbarie del califfato che verrà, attraverso gli occhi di bambini indottrinati con il bignami della lotta all’infedele. Undicenni infettati con sogni di gloria, ripetono a pappagallo massime del Corano – come altrove farebbero con le battute di film e videogame – di fronte a telecamere occhiute che li trasformano in modelli contemporanei del “feroce Saladino” pronto ad invadere coste e distruggere chiese. È un paradigma facile, tutto basato su pancia e ignoranza, che scatena il commento e fa alzare lo share, ma in fondo non è poi così sconosciuto. Quanto meno a certe latitudini.
In terra di ‘ndrangheta – e stando all’ultima relazione della Procura nazionale antimafia, tutta l’Italia lo è – i bambini soldato non sono certo una novità, tanto meno quelli sacrificati sull’altare di un perverso concetto di rispetto. Lo afferma, con la macabra efficacia di una tragedia che non può avere spiegazione, la fine di Cocò, ammazzato e bruciato a soli tre anni perché il nonno Giuseppe Iannicelli aveva deciso di pentirsi, lo raccontano pentite come Giusy Pesce, che da un destino di morte ha voluto salvare quel figlio nato “con il dito buono per sparare” e per questo già candidato al ruolo di sicario, ma anche la storia interrotta dall’acido muriatico di Cetta Cacciola, i cui figli sono stati usati come cavallo di troia per sfondare il muro del percorso di collaborazione intrapreso, senza che nessuno abbia saputo proteggerla. Ma ancor di più lo testimonia, con la forza di una maledizione che si tramanda di generazione in generazione, la triste parabola dei boss ragazzini. È il caso del figlio quindicenne di un noto boss della Piana, cui la legge concede – per ora – l’attenuante dell’anonimato per i crimini commessi quando – minore – si è trovato sulle spalle il peso di un casato di mafia. Quindicenne, di scuola non ne vuole sapere, e di fronte all’aut aut del fratello dietro le sbarre, alza le spalle e dice “non fa per me, non ho testa”. E inizia a studiare da capo, rivendicando il ruolo che per casato e sangue gli spetta. È l’unico figlio maschio del boss Molè, è ancora libero e in vita, e come figlio di boss si comporta. Tra una partita alla playstation e una di calcetto, pianifica estorsioni, gestisce traffico e spaccio di droga tra Calabria e Lazio, amministra i soldi di slot taroccate e pianifica vendette e punizioni. Non diversa è la sorte del suo coetaneo del vibonese, costretto a diventare capo forse ancor prima di essere uomo, o di quello di Palmi, che per mantenere i parenti in galera, rileva, amplia e rende ancor più “efficace” il giro dello strozzo. Bambini soldato di una guerra che hanno ereditato e cui non riescono ad immaginare alternativa, intercettati dagli inquirenti, li si ascolta scagliarsi contro “gli infami sbirri, magistrati e giornalisti”, con la stessa insensata e incosciente violenza con cui i loro coetanei siriani, iracheni, yemeniti, omaniti, si scagliano contro “gli infedeli” promettendo jihad. E allora che differenza c’è fra la ‘ndrangheta e l’Isis? Certo, sotto le bandiere nere del califfato le donne sono poco più che oggetti, ma bisognerebbe chiedere a Lea Garofalo, braccata, ammazzata e sepolta sotto la calce dal suo ex marito, o ancor meglio alla figlia Denise, resa orfana dal suo fidanzato del tempo, se in modi e metodi notano qualche apprezzabile differenza. E che ne direbbe Giuseppina Multari, resa schiava nella sua casa, o Angela Costantino, ammazzata per una relazione extraconiugale che le aveva regalato una gravidanza ingiustificabile per una vedova bianca di un boss in galera? Si dirà ancora, “ma quelli fanno attentati, seminano il terrore”. E il dramma è che chi – indignato – lo sostiene forse troppo presto ha dimenticato l’autostrada sventrata di Capaci, le bombe di via Palestro, il macello di via D’Amelio – partorite da quella stagione di terrore cui la ‘ndrangheta si negò a partecipare direttamente, fornendo però appoggio logistico – e andando ancora più indietro quel treno accartocciato a Gioia Tauro nel ’70, le bombe nei cestini di piazza della Loggia e le mille e una stragi di Stato in cui – dicono i pentiti – le ‘ndrine hanno messo lo zampino. E dunque, che differenza c’è fra la ‘ndrangheta e l’Isis?
Forse solo la storia e qualche inchiesta coraggiosa sapranno spiegare un giorno in che misura le “strategie di contenimento” delle intelligence occidentali abbiano contribuito alla costruzione di un mostro oggi scappato di mano, ma oggi l’Isis si pone come contropotere che mira a costituire uno stato alternativo – il califfato islamico – nei territori di Iraq e Siria, devastati dai demenziali giochi di potere che le cosiddette democrazie occidentali hanno innescato per interposta persona a quelle latitudini.
La ‘ndrangheta no, non è contropotere, non è antistato. È parte integrante dello Stato.
Quanto meno dagli anni Settanta, quando le ‘ndrine hanno convintamente contribuito alla strategia della tensione, trasformandosi in agenzia d(e)i servizi, buona per fare quello con cui altri – ben più interessati – non si potevano sporcare le mani. È successo con le bombe nelle piazze e con i rifiuti tossici, con gli omicidi istituzionali e quelli di chi per le istituzioni iniziava a rappresentare un problema, con i traffici di piccoli e grandi veleni – da quelle scorie che sarebbe stato troppo costoso smaltire, a quelle droghe così nocive, ma così utili per tener buona la gente – e con quei rapporti internazionali ufficialmente ingombranti, ma che a qualcuno è toccato pur curare. Un lavoro sporco, che qualcuno doveva pur fare e per il quale è stato ben retribuito. Ha pagato l’Italia, ha pagato la gente. Proprio grazie al missioni sporche portate a termine in silenzio – ipotizzano oggi le inchieste più lucide e lungimiranti – le ‘ndrine hanno potuto infettare indisturbate il Nord per essere “scoperte” solo a danno fatto e cancro metastatizzato, diventare monopoliste di traffici internazionali, gestire infrastrutture strategiche come il porto di Gioia Tauro (e forse non solo), conquistare direttamente o indirettamente posizioni importanti in aziende statali o parastatali tali da sedersi al tavolo a dettare la linea, entrare di diritto in grandi e piccole opere finanziate con fondi statali o europei. E il tutto, senza rinunciare a quella struttura più visibile e forse scontata, in grado di amministrare quel terrore in pillole che è al contempo minaccia e alibi per chi – ufficialmente – è incaricato della repressione. Minaccia, perché esempio e cartina tornasole di quello che potenzialmente e su scala più grande potrebbe succedere in caso di accordi non rispettati, patti violati, promesse non mantenute. Alibi perché se è vero che le operazioni antindrangheta si susseguono da Pordenone ad Africo, la cronaca dimostra e ogni relazione ufficiale lo certifica, che la ‘ndrangheta era ed è l’organizzazione criminale più potente. E allora – forse – prima di nuove crociate all’estero a caccia di feroci Saladini portatori di terrore, sarebbe il caso di iniziare a pensare a quel terrore che in casa è stato nutrito, vezzeggiato e coccolato come il figlio bastardo di una borghesia malata.

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