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Non solo letteratura nel volume di Guagliardi

“Pacchi” e contropacchi, trame, faccendieri, erotismo e miscugli d’umanità varia impregnano le aule e il vissuto del “Palazzo”, i cui corridoi si dipartono dalle pagine di un noir in salsa calabra …

Pubblicato il: 23/03/2015 – 18:10
Non solo letteratura nel volume di Guagliardi

“Pacchi” e contropacchi, trame, faccendieri, erotismo e miscugli d’umanità varia impregnano le aule e il vissuto del “Palazzo”, i cui corridoi si dipartono dalle pagine di un noir in salsa calabra che, a loro volta, assumono ossigeno dai neuroni asserragliati nel cranio di un politico in carne ed ossa. Insomma, non tutto è finzione. “Un pacco nel palazzo dei poteri”, benché sia un romanzo, si atteggia a schietto atto d’accusa. Il “Pacco”, infatti, non è inteso come un cartone in cui infilarci cianfrusaglie, né come involucro minaccioso per l’incolumità del “Palazzo”. Il “Pacco”, viceversa, è un’offesa alla legalità congegnata con modalità truffaldine ai danni del danaro pubblico e, quindi, da intendersi come un vulnus per la democrazia.

 

LA POLITICA CALABRESE RACCONTATA DALL’INTERNO
C’è poco da stare allegri, se politici e lobbisti stringono accordi oscuri. La letteratura diventa, per l’occasione, randello per una politica scialona. Fin qui, ancora nel vago: un “Pacco” nel “Palazzo” dei poteri. Ma quale Palazzo? La martellata il libro la sferra ad un solo Palazzo. La trama si svolge a Palazzo Campanella, per cui non ci sono dubbi che il j’accuse è indirizzato alla politica calabrese che Damiano Guagliardi, ex segretario di Rifondazione comunista, racconta dall’interno, essendone stato parte integrante in quanto consigliere regionale per tre legislature. Altroché, dunque, se è interessante un’immersione nelle 371 pagine del libro edito da Pellegrini che si legge d’un fiato anche per la curiosità d’individuare i politici dissimulati dalle maschere del romanzo. Certo: niente del “Pacco” è realmente accaduto. Ma sarebbe ipocrita fingere che il “Pacco” non abbia una solida base di verità; e, d’altra parte, al di là dei pregi letterari, sarà proprio sul declino della politica che si fermerà l’interesse dei lettori. Ma anche, si spera, l’attenzione della buona politica, che pure c’è, nel “Palazzo” e fuori. E da cui, nel romanzo, prende le mosse il “contropacco”. La cui astuta regia è di un anziano consigliere regionale (l’eroe positivo) che s’oppone. E disfa il “pacco”, attingendo ad ogni tipo d’espediente. Il libro s’inserisce nel solco di un genere che ha visto, specie negli anni scorsi, raccontare il travaglio della politica dal di dentro. Evidenziare successi e rovesci attraverso chi quel potere lo esercita, per esempio i tanti volumi sfornati dall’ineffabile Giulio Andreotti. Non è in discussione, però, se queste operazioni siano o meno dei “falsi” letterari dietro cui si celano intenti politici.

LA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA DEL CETO POLITICO
Come dire: il libro “la continuazione della politica con altri mezzi”. C’è una finzione letteraria che offre spunti al dibattito e che sarebbe sciocco liquidare come vezzi di politici inquieti. Il “Pacco” è il secondo lavoro con cui Guagliardi delizia i lettori con aneddoti, eventi, personaggi politici che, attraverso manovre dietro le quinte e l’oscurità gergale dei dialoghi che non di rado tracima in una singolare povertà semantica, mettono a nudo un humus politico asfittico. Privo di cultura e di fedeltà alle istituzioni. Frutto di una società in cui la cittadinanza attiva è un’araba fenice. C’è un tratto, poi, sociologicamente pregnante: i personaggi tratteggiati nel libro sono leader, nel proprio ambito, grazie alla tempra determinata di cui sono dotati. Politici e leader in forza di percorsi personali. Mai collettivi. Nella politica descritta da Guagliardi, le leadership si formano per una serie di causalità e sono cementate dagli interessi più o meno illeciti. Insomma, dai “Pacchi”, che questo modo di essere della politica aiuta a realizzare, quasi sempre su impulso di speculatori esterni al “Palazzo” che diventano, al postutto, i dominus delle istituzioni. Il collettivo e la società non esprimono forme politiche organizzate, da cui, in piena trasparenza, siano selezionati i politici. Certo, Guagliardi non inventa nulla. I politici di cui scrive sono le caricature o le copie stinte delle classi dirigenti prodotte dal “familismo amorale” descritto da Banfield nell’inchiesta che l’antropologo condusse nel 1958 durante un soggiorno in Lucania. Espressioni di una patologia della democrazia rappresentativa. Se la formazione dei politici avviene in modo non partecipato e non passa più dalle forche caudine dei partiti d’un tempo e se le elezioni si fondano su promesse clientelari, s’incappa nella violazione dell’articolo 48 della Costituzione, che impone il voto libero, consapevole e segreto. E, in secondo luogo, si ha la prova che la democrazia rappresentativa, non solo in Lucania e in Calabria, è sotto scacco. Guagliardi inoltre introduce (fin dal titolo) nel racconto della politica da lui sperimentata, la metafora del “Palazzo” di pasoliniana memoria. Cos’altro sono le espressioni, i dialoghi, i pranzi di lavoro ed i tic dei politici del thriller calabrotto, se non manifestazioni di quella politica (al tempo incarnato dalla Dc) contro cui Pasolini si scagliò con virulenza (dalle pagine del Corriere della Sera) per denunciare la “mutazione antropologica” del ceto politico in atto già negli Anni ’60 e ’70 dopo la “fine delle lucciole”? Commentò nel ’75: «Sono certo che a sollevare queste maschere funebri (il riferimento è ai politici democristiani) non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere». I capi d’accusa inanellati da Pasolini non sono invecchiati e il “Pacco” di Guagliardi ne è testimone: «Disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, connivenza con la mafia, distruzione paesaggistica e urbanistica, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani…».

PASOLINI: DIETRO LE MASCHERE DELLA POLITICA NON C’È PIU’ IL POTERE REALE
Ma c’è dell’altro: la denuncia di Pasolini che dietro le maschere politiche non ci fosse più il potere reale («Oggi in realtà c’è un drammatico vuoto di potere»), non solo legislativo o esecutivo, «ma un vuoto di potere in sé», trova nel Paese un dolente riscontro che dovrebbe indurre la politica a porsi delle domande sulla propria funzione. Soprattutto in un frangente in cui i vuoti lasciati sono colmati da altri poteri nei cui confronti “questa” politica rischia di soccombere, divenendo un mezzo attraverso cui lobby e “poteri forti” conseguono più rapidamente i loro scopi. Di Guagliardi si può malignare che è stato un politico vissuto nel “Palazzo” per anni, senza scalfire di un’h i micidiali meccanismi sviscerati nel libro. Però, se c’è ancora spazio per la civiltà del confronto, non si sottovaluti l’allarme che lancia. Se la politica non si rende conto che la società è cambiata e che, avendo ceduto sovranità sulle scelte di fondo, dai cittadini è percepita come un potere debole e privo di orizzonti, il rischio è che di “questa” politica chi è fuori del “Palazzo” non sappia che farsene. E allora si passerebbe dritti dalla fase post ideologica a quella post democratica.

 

*Giornalista

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