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Il caso Lanzino e l'ostinata ricerca della verità

Il prossimo 26 luglio saranno ben ventisette anni dalla morte di Roberta Lanzino, la giovane studentessa di Rende barbaramente violentata e uccisa mentre con il suo motorino si stava recando al mar…

Pubblicato il: 25/03/2015 – 8:28

Il prossimo 26 luglio saranno ben ventisette anni dalla morte di Roberta Lanzino, la giovane studentessa di Rende barbaramente violentata e uccisa mentre con il suo motorino si stava recando al mare. E saranno ventisette anni che la sua famiglia cerca la verità, vuole conoscere il nome e il volto dell’assassino. Il papà e la mamma di Roberta, il signor Franco Lanzino e la signora Matilde, con grande dignità e in silenzio chiedono giustizia da quel giorno. La stessa dignità con la quale seguono – ormai da anni – ogni udienza del processo che è in corso davanti alla Corte d’Assise di Cosenza. Un processo che a breve – forse il 23 aprile – dovrebbe arrivare a una conclusione. Una conclusione che potrebbe – i condizionali sono d’obbligo essendo tutto in mano alla Corte – aprire altre strade. E aprire nuovi capitoli perché nulla può essere lasciato al caso. Soprattutto adesso che, a differenza del primo processo (che si è chiuso con l’assoluzione in tutti i gradi di giudizio degli imputati), si ha una prova scientifica importante. Il Ris di Messina, a distanza di anni, ha analizzato dei reperti relativi all’omicidio ed è riuscito a isolare il Dna di almeno due persone, trovato su un pezzetto di terriccio prelevato sotto il cadavere di Roberta. Ma quel Dna non è compatibile con quello di Francesco Sansone, il pastore di Cerisano accusato di aver violentato e ucciso la studentessa di soli 19 anni, assieme a Luigi Carbone. Di Carbone si sono perse le tracce e secondo le rivelazioni di un pentito – che ha fatto riaprire le indagini – sarebbe stato ucciso dal padre e dal fratello di Sansone perché voleva raccontare quello che sapeva sul caso Lanzino.
Così nell’aula della Corte d’Assise del tribunale bruzio sono arrivati anche i genitori di Carbone e i figli, che ora vivono al Nord. Tutti si sono sottoposti agli esami dei carabinieri del Ris e anche il loro Dna non è risultato compatibile. Ma quel che è certo è che quella «mistura» di sangue e sperma esiste e di qualcuno deve pur essere.
«È un elemento importantissimo», ripete a ogni udienza l’avvocato Ornella Nucci, legale della famiglia Lanzino che si è costituita parte civile. L’avvocato Nucci cerca la verità con i denti e con le unghie perché «non ci dormo la notte. Devo provarle tutte pur di capire che cosa sia successo a quella ragazza». Lo deve a Roberta. Lo deve al signor Franco e alla signora Matilde.
I vestiti di Roberta, ripescati negli scatoloni dopo quasi trent’anni, ricompaiono alla vista della mamma che, a volte, cerca di nascondere il suo dolore e la sua sete di giustizia. Lo fa con dignità. Così come accetta di dare alla Corte un braccialetto di Roberta per farlo analizzare dai Ris. Lo tiene stretto in mano. Poi lo consegna al suo legale per vedere se anche quell’oggetto possa “dire” qualcosa su quel tragico giorno.
E mentre a Cosenza il processo si avvia alle battute finali, la Procura di Paola apre un nuovo fascicolo di indagine. Ora che c’è quell’«ignoto 1» che bisogna cercare. E il procuratore capo, Bruno Giordano, è più che determinato: «Non lasceremo nulla al caso. Ma senza sparare nel mucchio».
Se ad aprile si chiuderà un altro capitolo della vicenda giudiziaria del delitto Lanzino, questa volta, però, sembra non finire qui. Si procederà senza sosta e si procederà in tutte le direzioni. Così la magistratura assicura. Così deve essere per Roberta e per la sua famiglia. E per tutte quelle donne, vittime di violenza, che papà Franco e mamma Matilde aiutano quotidianamente. Per Roberta e con Roberta nel cuore.

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