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'Ndrangheta, condannato a 17 anni “Mico Tatoo”

REGGIO CALABRIA Regge l’impianto accusatorio alla base dell’inchiesta “Tatoo”, scaturita dal filone investigativo che ha progressivamente assottigliato di vecchie e nuove leve il clan Caridi-Borghe…

Pubblicato il: 03/04/2015 – 15:35
'Ndrangheta, condannato a 17 anni “Mico Tatoo”

REGGIO CALABRIA Regge l’impianto accusatorio alla base dell’inchiesta “Tatoo”, scaturita dal filone investigativo che ha progressivamente assottigliato di vecchie e nuove leve il clan Caridi-Borghetto-Zindato. Il Tribunale, presieduto da Matteo Fiorentini, ha condannato oggi a 17 anni e sei mesi Demetrio Sonsogno – il “Mico Tatoo” che ha dato il nome all’inchiesta – e a 4 anni e 4 mesi Antonino Labate. Se per quest’ultimo, difeso dall’avvocato Lorenzo Gatto, la difesa aveva indotto lo stesso pm a chiedere l’assoluzione dall’accusa di associazione mafiosa e la condanna a 6 anni per tutti gli altri reati contestati, per Sonsogno, per il quale il sostituto procuratore Musolino aveva chiesto 22 anni di carcere, i legali Giancarlo Murolo e Gianfranco Giunta si devono accontentare “solo” di una condanna più mite rispetto alle richieste. Considerato il reggente del clan in assenza del boss Checco Zindato – da tempo dietro le sbarre –, Sonsogno è stato inchiodato proprio grazie alle conversazioni intercettate in carcere fra il capoclan e la moglie, Malgorzata Tchorzewska, cui raccomandava di fare riferimento solo a “Mico Tatoo”, «perché – si raccomandava Zindato – è l’unico che sa le mie cose ed è l’unico che mi deve fare tutte le cose». Un ruolo per il quale, secondo l’accusa, il reggente era stato preparato già in precedenza, se è vero che – come il capoclan confida alla moglie – «Mico ha un foglio con un promemoria», che per gli investigatori sintetizzerebbe tutti gli affari illeciti in mano al clan. È dunque con la regia di Sonsogno che il clan prosegue “l’attività di famiglia”, quelle estorsioni che permettevano ai Zindato non solo di mantenere un saldo controllo del territorio nonostante i vertici fossero dietro le sbarre, ma anche di sostenere le spese che la detenzione di capi e sodali comporta. Estorsioni – ordina Checco Zindato da dietro le sbarre – che non devono però diventare impossibili da pagare per le vittime. «Le persone ti devono volere bene, ma non perché si spaventano», spiega magnanimo il capoclan, sottolineando l’inutilità di «cercare soldi alle persone in giro che non hanno da pagare la bolletta». Una “filosofia” di famiglia – già declinata e in precedenza ascoltata dagli inquirenti da parte dell’altro capo del sodalizio, Francesco Rosmini – che vuole che le estorsioni siano tarate sulla possibilità della vittima: «Se avevano una serranda… se aveva due serrande quattrocento, se un negozio aveva quattro … per dire tre serrande». Una strategia non di certo dettata dall’etica o dalla bontà d’animo, ma solo dalla necessità di evitare che le vittime sfinite da richieste troppo onerose decidessero di denunciarlo. «Se facevo in questa maniera io … (inc.) … sai quanto duravo? Tre giorni, la gente ti deve volere bene – pontifica Checco Zindato – non ti deve odiare, tu quando gli chiedi cento euro ciascuno loro … (inc.) … i soldi glieli devi prendere a chi li ha, no a quelli che lavorano».

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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