Il portare alla conoscenza di tutti le attività processuali risponde, innanzitutto, ad un’esigenza di garanzia. La possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica sullo svolgimento di un processo penale ha costituito un notevole passo avanti nell’evoluzione del sistema delle garanzie rivolto al rispetto della persona. La segretezza che caratterizzava – e che caratterizza – gli ordinamenti processuali di Stati non democratici e non liberali favoriva – e favorisce – ogni abuso nell’esercizio della potestà punitiva da parte dello Stato. La possibilità di avere in tempo reale informazioni sull’esercizio di tale potestà di per sé costituisce un significativo deterrente a che si violino le regole processuali. L’estensione dei mezzi di comunicazione di massa (a quelli tradizionali si aggiungono ora quelli telematici) sta sempre più rafforzando ed estendendo la possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica. Cosicché l’informazione sull’andamento del processo assume sempre più la funzione di strumento di tutela della persona umana da un qualunque abuso del potere. A questa (rilevante) funzione di garanzia si accompagna una funzione di prevenzione generale: la conoscenza della capacità dello Stato di reprimere, attraverso un giusto processo, i comportamenti devianti costituenti reato rafforza la sua legittimazione come garante dell’ordine pubblico e della sicurezza personale e opera come deterrente nei confronti della collettività.
L’informazione sullo sviluppo di un processo penale adempie, pertanto, a queste due funzioni: garanzia da possibili abusi e prevenzione generale. La soddisfazione di queste due funzioni trova un limite nell’esigenza di tutelare il segreto su atti d’indagine, al fine di non comprometterne l’esito e nell’esigenza di rispettare la sfera privata delle persone coinvolte nel procedimento da qualunque pubblicazione che sia inutilmente invadente. Il legislatore e la giurisprudenza sono alla continua ricerca di punti di equilibrio che siano idonei a contemperare tutte le funzioni e tutti i beni implicati. Ciò, da un lato, ha portato, nel diritto penale sostanziale e in quello processuale, alla delineazione di forme e modalità di tutela della segretezza e della riservatezza di specifici atti procedimentali; dall’altro, ha condotto alla configurazione di criteri di valutazione, riguardanti i profili oggettivi dell’informazione, consistenti, com’è noto, nella verità, nella continenza della forma, nell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, nel quadro della distinzione tra diritto di cronaca e diritto di critica.
L’elasticità di tali criteri e il notevole margine di discrezionalità che il loro uso demanda alla valutazione ex post dell’Autorità giudiziaria aprono la strada alla ricerca, sul piano della politica del diritto e della politica criminale, di parametri più definiti, meglio utilizzabili ex ante a indicare cosa sia consentito e cosa sia vietato. Quando si affronta un tema come quello del rapporto tra informazione e processo occorre delineare i principi che devono caratterizzarlo e, in base a questi, strutturare le regole.
È necessario, poi, chiedersi quale tecnica normativa sia la più adeguata a disciplinare il settore; e, cioè, se sia preferibile una tecnica tradizionale, che si limiti alla previsione del precetto, della sanzione e delle eventuali cause di non punibilità o se sia da privilegiare una scelta che, accanto a ciò, utilizzi la predisposizione di indirizzi o protocolli che traducano i principi.
In questa prospettiva, una soluzione potrebbe essere ricercata nell’individuazione di una diversa tecnica normativa di regolamentazione della materia e, più “a monte”, nell’elisione delle motivazioni soggettive che possano indurre al non rispetto della normativa che tutela il segreto delle indagini e a una non consentita trasmissione di notizie ai mass media.
Sotto il primo profilo potrebbe accedersi alla redazione di un protocollo, avente valore normativo adeguato a riempire di contenuto puntuale sul tema la scriminante dell’esercizio del diritto, che definisca ciò che abbia carattere diffamatorio o che leda inutilmente la sfera privata (una notizia potrebbe non essere diffamatoria, ma ciononostante potrebbe ledere inutilmente la riservatezza di una persona) e ciò che, invece, sia legittimo pubblicare: nello strutturare tale protocollo si dovrà, ovviamente, partire dai criteri individuati dalla giurisprudenza, per ulteriormente precisarli.
Si potrà, così, regolamentare in modo più specifico cosa sia esigibile in relazione al controllo della verità della notizia, fino a quale limite ci si debba spingere nella verifica e quali atti siano accompagnati da una presunzione di attendibilità, la conoscenza di quali fatti debba essere comunque ritenuta di interesse pubblico (ad es., fatti integranti illecito penale, amministrativo, civile, aventi o meno rilevanza probatoria per definire il contesto, ecc.), quali soggetti per il tipo di attività svolta (ad esempio, politica, professionale, imprenditoriale) debbano ritenersi esposti ad una minore tutela della privacy, quali forme verbali debbano essere utilizzate nell’esposizione della notizia (ad es.,indicativo, condizionale, ecc.); e così via. Prevedendo, poi, un minimum di regole che, se rispettate, tengano, comunque, indenne da ogni responsabilità la pubblicazione (ad esempio, l’indicazione del fenomeno, ma non degli specifici soggetti cui questo sia riconducibile).
Sotto il secondo profilo potrebbe imporsi l’obbligo, per ogni singolo ufficio pubblico che gestisca informazioni segrete o riservate, di adottare un modello organizzativo adeguato a eventuali fughe di notizie, prevedendo illeciti disciplinari colposi per fughe di notizie in caso di inadeguatezza del modello (ferma restando le responsabilità penali secondo la normativa vigente).
Si potrebbe, poi, individuare una disciplina che impedisca lo stravolgimento funzionale, e, cioè, l’utilizzazione del quadro informativo derivante dallo svolgimento delle funzioni per il perseguimento di fini personali (o, comunque, non per finalità connesse all’ufficio); sanzionando l’ abuso del ruolo per gestire le informazioni di cui si è in possesso a causa del ruolo stesso.
Accanto a tutto ciò, appare opportuno un intervento normativo per incidere sulle motivazioni soggettive che possono indurre a pubblicizzare informazioni che, per legge, devono essere mantenute segrete o riservate.
Occorre dire che non è facile trovare un punto di equilibrio tra tutela della privacy e interesse pubblico alla conoscenza del maggior numero possibile di informazioni, soprattutto se attinenti a soggetti che ricoprono cariche pubbliche.: la definizione del divieto di pubblicazione del contenuto di conversazioni intercettate e la delineazione delle eventuali sanzioni per la sua violazione richiede, però, la ricerca di una soluzione che contemperi gli interessi in conflitto.
Il punto di partenza è costituito dal chiedersi se il bene che un eventuale divieto di pubblicazione intende tutelare abbia una prevalente caratterizzazione pubblica o abbia una prevalente caratterizzazione privata.
Se si ritiene che il fine della tutela risponda ad un interesse pubblico, si dovranno scegliere meccanismi sanzionatori basati sulla procedibilità d’ufficio, qualora si opti per una risposta di tipo penale, o, comunque, di tipo contravvenzionale amministrativo.
Se, invece, si dovesse ritenere che la ratio del divieto risponda ad un’esigenza di tutela di un bene attinente alla sfera individuale (rispetto della persona umana, del suo diritto alla riservatezza, e così via), si dovrà configurare una fattispecie penale procedibile a querela della persona offesa, qualora si ritenga utile l’intervento del diritto penale, o, se si opta per modalità di protezione diverse, si dovrà prevedere uno specifico illecito civile, accompagnato dalla previsione di procedimenti speciali attinenti ai profili ri
sarcitori e alla rimozione degli eventuali effetti dannosi.
Dovrebbe essere, poi, prevista, come causa di deresponsabilizzazione sia sotto il profilo penale (se si sceglie una tale tecnica di tutela), sia sotto il profilo contravvenzionale amministrativo (se si sceglie quest’altra tecnica di tutela) per l’organo di informazione che riveli il nome del pubblico ufficiale che abbia fornito la notizia che non doveva essere pubblicata e che si adoperi per elidere le conseguenze dannose della pubblicazione.
Qualunque soluzione si scelga, ciò che, comunque, appare opportuno è che una stessa fattispecie incriminatrice non sia diretta a tutelare sia beni di natura pubblica (come, ad es., la segretezza, la serenità del giudice, ecc.) sia beni di natura privata (come, ad es., la riservatezza e la reputazione).
Anche perché beni di natura privata, come la riservatezza, è opportuno che siano garantiti attraverso una tecnica che riconosca la disponibilità degli stessi in capo alla persona che nel caso concreto ne sia titolare: cosicché, ad es., la persona il cui diritto alla riservatezza sia leso, in ipotesi, da una notizia coperta da divieto di pubblicazione possa scegliere di diffonderla (se non lesiva di altro bene tutelato da altra norma, ad es. la segretezza delle indagini) senza incorrere in responsabilità.
Tra le varie soluzioni che in questi giorni si stanno prospettando, tutte tecnicamente adeguate e giustificabili sul piano politico-criminale, è ora compito della politica trovare un contemperamento tra i diversi beni implicati, consultando preventivamente gli organi rappresentativi delle categorie interessate (giornalisti, avvocati e magistrati) e le maggiori testate giornalistiche e radiotelevisive nazionali e locali.
*Avvocati
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