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Il coraggio di una testimonianza

REGGIO CALABRIA Ci ha pensato per mesi. Ha valutato i pro, i contro. Nato e cresciuto a Rosarno, non ha avuto nessuna difficoltà ad immaginare quali potessero essere le conseguenze di quello che al…

Pubblicato il: 15/04/2015 – 14:39

REGGIO CALABRIA Ci ha pensato per mesi. Ha valutato i pro, i contro. Nato e cresciuto a Rosarno, non ha avuto nessuna difficoltà ad immaginare quali potessero essere le conseguenze di quello che altrove è considerato un normale dovere civico: denunciare un crimine di cui si viene a conoscenza. Il problema – per lui, per la sua famiglia – è che il crimine cui ha assistito riguardava i suoi ingombranti vicini di casa, quei Bellocco che hanno scritto con il sangue la storia di Rosarno e del suo comprensorio. Ma per lui, vigile urbano alle soglie della pensione, le scene viste quella mattina di agosto, quelle urla disperate – «Pirdunatemi» diceva piangendo Franca Bellocco – si erano trasformate in un tarlo, che scavava dentro. È per mettere a tacere quel tarlo che avrebbe deciso di parlare con gli investigatori. Abboccamenti informali inizialmente, qualche dettaglio poi, e solo dopo molti tentennamenti, la storia completa. Di fronte agli investigatori, il vigile ha messo insieme tutto quello che ricordava di quella mattina del 18 agosto. La macchina che arriva verso le sette, quei tre uomini con il volto travisato che scendono, armati, le urla di Franca Bellocco, che le pareti di casa non riescono a trattenere, e poi la Fiat Panda della donna, guidata dal figlio Francesco, che esce in fretta dal garage e si allontana, seguita a ruota dall’utilitaria con a bordo i tre uomini armati. Ad uno, nella concitazione, è scivolato indietro il cappuccio della felpa, e il vigile urbano è riuscito a vederlo in viso. Potrebbe essere Giuseppe Bellocco ma non sa, non è sicuro, dice agli investigatori mentre con la memoria ripercorre il film di quella mattina. Immagini che nella sua mente ha rivisto più e più volte e che lo stavano scavando dentro. Per questo, alla fine, ha deciso di parlare, ha deciso di denunciare. Sapeva che avrebbe dovuto lasciare la sua casa e la sua città, sapeva che avrebbe dovuto costringere allo stesso destino anche la moglie e le figlie già grandi. In un primo tempo aveva fatto caso alle loro paure, ai loro consigli ispirati all’eterno comandamento del “fatti i fatti tuoi”, ad un certo punto si è anche rivolto agli investigatori per ritrattare quanto dichiarato. Temeva di essere abbandonato dallo Stato, di ritrovarsi dopo qualche mese, senza lavoro, senza soldi e in una città sconosciuta, alla mercè del potente clan. Poi però il senso di giustizia, «nel senso più alto del termine», ci tiene a sottolineare il procuratore Sferlazza , ha avuto la meglio. Nel marzo di quest’anno, dopo un colloquio con i massimi vertici della Procura, ha formalizzato le sue dichiarazioni. Insieme alla famiglia, nel giro di poco, è stato trasferito in una località protetta. «La figura del testimone di giustizia in territori come questi è fondamentale – commenta il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho –. Questo è un uomo di una certa età, con due figli maggiorenni, che nonostante tutto ha accettato di stravolgere la propria vita. Un signore vero, che ha il senso dello Stato e della giustizia. Un esempio bellissimo che in tanti dovrebbero imitare».

 

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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