1943-1945: dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla Liberazione del 25 aprile 1945. Settant’anni di un evento fondativo per la democrazia italiana. Non c’è aspetto della Resistenza che non sia stato passato in rassegna. Con incursioni sul presente: di tanto in tanto, c’è chi, per nobilitare le proprie azioni, si autodefinisce “nuovo resistente”. Sopravvive, però, qua e là, un pregiudizio: i meridionali non vi hanno preso parte. Nulla di più falso. Alla domanda: fu, la Resistenza, un grandioso fatto storico consumatosi soltanto nel triangolo industriale e nel centro del Paese con drammatiche fiammate di violenza che hanno avuto come scenario Roma (l’attacco di via Rasella e l’eccidio delle fosse Ardeatine)? Per rispondere compiutamente e gettare alle ortiche un insulso luogo comune secondo cui la gente del Sud sarebbe stata a guardare, ci ha pensato l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, che due anni fa, assieme al consiglio regionale del Piemonte, auspice l’allora vicepresidente Roberto Placido(Pd), ha dato alle stampe un volume prezioso. Titolo della ricerca, realizzata con il contributo di tutti gli Istituti della Resistenza del Piemonte e con l’obiettivo di promuovere un’indagine sull’apporto di quei giovani e meno giovani dell’Italia del Sud che ne fecero parte, con ruoli e responsabilità diverse, del movimento di Liberazione: “Il contributo del Sud alla lotta di Liberazione in Piemonte 1943-1945”. La ricerca, con approfondimenti specifici, sarà illustrata il 6 maggio nell’Aula Giuditta Levato del consiglio regionale della Calabria dal presidente del gruppo del Pd Sebi Romeo.
SETTEMILA MERIDIONALI E MILLE CALABRESI RESISTENTI AL NORD
La ricerca, tanto per segare subito il pregiudizio, riscontra che in Piemonte ci sono stati settemila partigiani meridionali di cui mille calabresi. Naturalmente, sul ruolo del meridionali nella Resistenza non mancano pubblicazioni anche significative, né sono mancati i riferimenti a personaggi di primo rilievo, sia per l’attività politica sia per l’attività militare. Ma laricerca (la più avanzata nel suo genere) dimostra, nel caso del Piemonte, che la partecipazione e il ruolo avuto da migliaia di giovani meridionali non è stato un contributo aggiuntivo, ma costitutivo della lotta di liberazione che costringe a ripensare l’insieme del movimento e il suo significato generale, nazionale. «La Resistenza – ha spiegato l’ex vicepresidente del Consiglio piemontese Placido – è stata sempre vista come fenomeno circoscritto al Centro-Nord del Paese. Le generazioni di origine meridionale che negli anni, in Piemonte e nelle altre regioni, hanno partecipato alle manifestazioni celebrative sono sempre state mosse da motivazioni politico-idelogiche più che da un sentimento dovuto alla partecipazione attiva alla lotta di Liberazione. Oggi, la ricerca e il convegno organizzato a Torino, hanno ricondotto l’evento a un orizzonte d’insieme, integrando lo sguardo del Sud con quello da Nord, così che l’approfondimento delle conoscenze possa portare a una giusta valorizzazione di quell’esperienza. Anche i discendenti di chi ha partecipato a quella straordinaria esperienza, potranno sapere, con orgoglio, di essere stati protagonisti della costruzione della democrazia italiana. Di qui la necessità non solo di un rapporto integrato tra i ricercatori, ma in primo luogo delle istituzioni, nazionali e locali, per creare le condizioni per poter procedere in modo unitario».
COME INCROCIARONO LA RESISTENZA I MERIDIONALI
Riscontri tangibili? Sono numerosi i meridionali che, partecipando alla Resistenza in Piemonte, hanno pagato prezzi elevati per quelle scelte e verso i quali il Paese ha un enorme debito di riconoscenza. «Non c’è che l’imbarazzo della scelta, perché nelle formazioni piemontesi entrarono – spiega Placido, i cui genitori emigrarono dalla Basilicata in Piemonte nel 1967 – molti giovani meridionali, di diversa estrazione sociale, di diversa formazione: in altre parole una parte significativa della migliore gioventù meridionale. In appendice al volume, che si è voluto preparare per dare risalto e concretezza alla proposta di ricerca, sono riportati centinaia, migliaia di nomi di partigiani meridionali. Rispetto ai dati di cui oggi si disponiamo, ad esempio sono circa un migliaio i partigiani di origine calabrese. Peraltro, nella prima parte del volume sono riportati alcuni storie e profili di singoli combattenti per far cogliere, a puro titolo di esempio, le molte articolazioni con cui quella presenza si è manifestata. Il profilo della singola persona, del singolo partigiano va assolutamente riconosciuto e valorizzato. Però è anche vero che quando si supera una certa soglia quantitativa i comportamenti individuali producono effetti collettivi complessi, che richiedono per essere compresi di essere collocati nelle vicende degli anni 1943-45». L’aggregazione dei meridionali nel movimento di liberazione piemontese, ragioni e dinamiche fondamentali. In sintesi, sono individuabilidue percorsi: il primo è costituito da quei meridionali che vengono sorpresi dall’8 settembre mentre stanno svolgendo il servizio militare in Piemonte. Quando riescono a sfuggire ai tentativi di cattura da parte dei tedeschi, hanno due scelte: nascondersi o aggregarsi alle formazioni partigiane che si vanno costituendo. Il secondo percorso riguarda i meridionali che sono già in Piemonte, o perché immigrati negli anni precedenti o perché nati in Piemonte da famiglie di meridionali immigrate a partire dagli anni del primo dopoguerra. Malgrado gli ostacoli frapposti dal regime fascista, i flussi immigratori non si fermarono e portarono, soprattutto nei centri industriali, soprattutto a Torino, quote consistenti di immigrati da Sud, un’anticipazione del massiccio esodo che si produrrà negli anni 50. L’aggregazione fra meridionali segue percorsi diversi: può derivare dal fatto di essere militari nella stesso reparto o nella stessa caserma, o di essere relativamente vicini alle basi delle formazioni partigiane. La scelta può essere immediata oppure essere il risultato di una valutazione più meditata e quindi dilazionata di qualche mese. A volte dipende molto dall’ esigenza di mantenere un rapporto tra “paesani”, come espressione di una solidarietà regionale che l’uso del dialetto rendeva immediatamente evidente.
DUE STORIE ESEMPLARI. GREGARI E PARTIGIANI DI SPICCO
La ricerca indica due storie esemplari di partigiani meridionali, quella di Nunziato di Francesco che nasce a Linguaglossa (Catania) e di Michele Ficco di Cerignola (Foggia). «Tra i calabresi – commenta Placido – a puro titolo esemplificativo si possono ricordare i fratelli Nicoletta, originari di Crotone, che ebbero un ruolo notevole fin dalle prime battute nell’organizzazione del movimento partigiano nelle valli a ovest di Torino, in un’area che conobbe scontri durissimi e continuamente rinnovati tra tedeschi e fascisti e formazioni partigiane di diversa ispirazione. Giulio Nicoletta interpretò in questo contesto un ruolo originale di comandante-mediatore riconosciuto da tutte le formazioni presenti in quelle valli. Oppure, si può citare il nucleo di ufficiali di origine calabrese che divennero una parte importante delle strutture di comando delle formazioni garibaldine nel Biellese orientale o le decine di giovani calabresi, che caddero in quei mesi e per i quali la ricerca dovrebbe aiutarci a rinnovare ricordo e gratitudine». Non sfuggirà che per quei meridionali che decisero di aderire alle lotte partigiane in Piemonte, ma in generale nel Nord del Paese, i rischi erano maggiori. I giovani di origine meridionale che operarono nelle fila della resistenza piemontese si trovavano in una condizione di maggiore difficoltà rispetto ai loro coetanei piemo
ntesi, perché la loro condizione di sbandati non era compensata da nessun retroterra ( familiare, di comunità) su cui contare per sfuggire alla minaccia della cattura, della deportazione o dell’uccisione. Nei contesti rurali, questo rischio poteva essere contenuto da atteggiamenti diffusi nella popolazione di protezione nei confronti di giovani che il più delle volte condividevano con i locali una comune cultura contadina.
L’ORIENTAMENTO POLITICO DEI PARTIGIANI MERIDIONALI
Più complessa è l’individuazione dell’orientamento politico dei meridionali che aderirono al movimento di liberazione. Salvo qualche caso, si può avere solo un’indicazione indiretta sull’orientamento politico delle formazioni di cui i partigiani meridionali fecero parte. Va tenuto presente che si tratta di un indicatore di massima, perché non c’è un rapporto diretto tra il colore della formazione e la scelta politica dei partigiani che in essa militano. «Sulla fedeltà politica – chiarisce Placido – prevale quella di appartenenza e, quindi, di rapporto personale con il comandante o con i compagni. La banda partigiana, rispetto ad una formazione militare tradizionale, ha un tasso elevato di autonomia che dipende dal rapporto tra i comandanti e i singoli partigiani. Inoltre, gran parte dei partigiani sanno poco o nulla di politica; salvo il caso di una minoranza che viene dall’antifascismo storico, la prima maturazione politica per molti di loro avviene nel corso di quell’esperienza eccezionale che fu la lotta di liberazione. Da questo punto di vista, diventa interessante riuscire a seguire le vicende dei partigiani nel dopo liberazione, per cercare di capire come quell’esperienza poté incidere sugli orientamenti successivi e sulle loro scelte di cittadini». Gregari o personalità di spicco i meridionali della Resistenza? L’uno e l’altro. Furono di origine meridionale comandanti tra i più prestigiosi e amati del movimento partigiano piemontese. Pompeo Colajanni, per esempio, o Giulio Nicoletta. Così come tra i gregari possiamo citare figure splendide di protagonisti che seppero dare un’impronta precisa al loro impegno fino al sacrificio estrema.
*Giornalista
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